La sostenibile leggerezza dell'arrampicare - Chapter 1 - Ten years after

Capitolo 1

Ten years after

Dal 2006 al 2008

Tutti abbiamo una mission ma siamo sempre gli ultimi a scoprire qual è!

 

CHAPTER 1.0

L’Origine

Trascinati da qualche amico o per inseguire una ragazza, per passione di papà, casualmente, per moto proprio, per insana curiosità, nessuno, tra coloro che diventeranno veri alpinisti o arrampicatori, è consapevole delle conseguenze che il primo contatto con il magico mondo della roccia porterà, l’inizio è una incognita per tutti.

Tranne che per il sottoscritto.

Se a 10 anni sono già 10 anni che vieni portato in alta montagna, insieme a tuo fratello sottrai regolarmente di nascosto dallo zaino di papà martello, chiodi e cordino e inizi i tuoi esperimenti, a 12 anni capisci che la corda doppia è pericolosa quando poco ci manca che fai fuori un compagno di giochi, a 13 con i calzoni di velluto alla zuava fai il tuo primo 4.000 e alle scuole medie al posto di Moby Dick leggevi I giorni grandi, Le mie montagne e 342 ore sulle Grand Jorasses e nei sogni ti trovavi regolarmente mezzo congelato su qualche parete nord, che a quella età già sapevi che erano posti pericolosi, beh! direi che il momento del primo contatto con il magico mondo della roccia non riesco a collocarlo con precisione.

Sono stati tanti piccoli incontri, i primi sicuramente avvenuti una volta terminata la fase del gattonaggio, ma sono vaghi ricordi; più definite sono le avventure con mio fratello sulle rocce delle Pyramid Calcaire alle spalle del Rifugio Elisabetta in Val Veny ma il più potente, nuovo folgorante inizio le cui conseguenze furono, come prevedibile, assolutamente imprevedibili, avvenne nel 1977.

E’il marzo di quell’anno quando, appena compiuti 17 anni, in extremis, lessi il mio nome nell’elenco degli allievi ammessi al mitico Corso Roccia Primaverile organizzato dalla Scuola Nazionale d’Alta Montagna “Agostino Parravicini”, il nome deve essere scritto per intero. La Parravicini, mica noccioline.

Cominciò così quella fase esplorativa della roccia ma soprattutto di se stessi nella quale, complice l’età, ci si mette veramente in gioco facendo esaltanti inconsapevoli esperimenti a rischio più o meno controllato.

Ci sono la scoperta e l’esplorazione di un nuovo mondo, l’avventura, le emozioni violente, le nuove amicizie e le nuove relazioni, i rischi, le paure che non pensavamo di avere, le esaltazioni per i successi.

La potenza emozionale dell’iniziazione è un marcatore che segnerà gran parte della vita di ogni scalatore e riuscire a protrarla più a lungo possibile è il massimo che si possa desiderare e che si cerca di fare.

Purtroppo viene concesso solo a pochi fortunati e

Ovviamente

Come ben potete immaginare

La fortuna del prescelto toccò al sottoscritto

 

CHAPTER 1.1

Il Fuoco Sacro

... che anima ogni scalatore, complice una buona dose di culo, fece sì che la mia fase iniziale durò discretamente a lungo. Iniziò nel periodo finale della rivoluzione della libera arrampicata, anni tumultuosi e densi di novità nei quali con un piccolo manipolo di iniziati passammo da allievi del Roccia Primaverile ad istruttori della stessa Scuola nel giro di un paio d’anni!

Il nostro status all’interno del piccolo mondo arrampicatorio che ruotava attorno alla Parravicini salì alla velocità del fulmine.

Fu in effetti facile, bastò che insieme ai fidati compagni azzeccassimo una serie di mirabolanti avventure, sempre più difficili, rischiose e tragicomicamente risolte non senza qualche postumo invalidante, e le porte delle alte terre dove albergano i veri scalatori ci si aprirono.

Come tutti quelli che scalano, quelli Veri, finalmente anche noi iniziammo ad avere delle certezze nella vita.

Gli scalatori sono così sicuri che le motivazioni a sostegno di ciò che fanno siano senza ombra di dubbio buone e valide che non hanno mai fatto caso alla loro sostanza. Il legame che instaurano con la nuda roccia è una certezza granitica e diventa la loro personale way of life e way of climbing e non c’è necessità di indagare ulteriormente.

Qualcosa poi si incrinò e abbastanza rapidamente iniziai a soffrire di inquietudine.

Difficile capire cosa stesse succedendo in quanto per un alpinista, se fa le vie, che problema c’è.

E’ tutto perfetto, tutto sotto controllo. Programmi la salita, prepari lo zaino, parti, fai la via e torni a casa, sviluppi le foto (una volta, tanto tempo fa) trituri i marroni agli amici con una bella serata diapo (una volta tanto tempo fa) riprepari lo zaino, riparti, salita e a casa con l’ennesima serata diapo, più lineare di così? (A 1.1)

Mi accorgevo però che c’era qualcosa di strano, come se la validità del supporto motivazionale a quello che facevo soffrisse di una sorta di aritmia. Si affaticava (eeh!), recuperarlo diventava faticoso così mi fermai un attimo a pensarci. Se non si è curiosi non è comunque necessario pensare anzi, a volte è meglio non farlo, potrebbe avere conseguenze indesiderate. E già! la nostra way of climbing.!

L’autoanalisi che ne seguì, brevissima ma approfondita, mi fece vedere il mio andare a scalare come una pratica un pò ripetitiva, noiosa, ma intravedevo una luce in fondo al tunnel!

Dei flash, dei segnali c’erano già stati.

Quando metti sul tavolo le carte e analizzi le tue motivazioni non puoi non considerare il tuo background culturale. Resistere ai condizionamenti è sempre difficile ma se l’adolescenza e postadolescenza, che non ho mai capito quando sono finite, l’hai passata a leggere i libri di Walter Bonatti e Renè Desmaison resistere è impossibile. Queste letture segnano veramente, più di ogni altra esperienza alpinistica.

Walter Bonatti, Renè Desmaison e se proprio vogliamo mettiamoci anche Reinhold Messner hanno navigato i miei sogni e condotto le mie fantasie nel periodo d’oro della gioventù. Su tutti indubbiamente Walter Bonatti.

Per me è stato un grandissimo esploratore, prima sulle montagne, poi nelle terre sconosciute, nei deserti, sull’acqua. Ha avuto la fortuna di potersi muovere su terreni ancora vergini e la capacità di farlo sempre al massimo ma la lettura dei suoi racconti ti procurava ansie pesanti quando la tua meta era un delle sue scalate.

Poi le cose iniziano a migliorare quando nei sogni entrano i grandi esploratori californiani di quel mare di granito che è El Capitain, poi il Verdon e la Val di Mello. Intravedevo la luce. I sogni diventavano solari.

 

CHAPTER 1.2

La Mission?

Se, e qui sta il punto, quando guardi una parete cerchi i riferimenti delle vie esistenti per guardare dove non c’è ancora nulla devi capire che anche tu fai parte della ristrettissima cerchia degli esploratori. Non devi far altro che aspettare il segnale.

La fulminazione avvenne sul sentiero per La Sentinella. Gondo. Val d’Ossola.

Agosto ’82, complice un brutto periodo climatico sul Bianco, con mio fratello Lele, Daniele (due del manipolo) e Antonio lasciamo la val Veny e ci ritroviamo a salire il breve sentiero che dal quel ridente paesino di Gondo porta alla base della parete della Sentinella.

Obbiettivo: la via Rondini Sanguinarie, guida utilizzata Cento nuovi mattini, letture di riferimento “Tis-sa-ack” di Chuck Pratt e l’articolo sulle Gole di Gondo di Alberto Paleari pubblicato su “Scandere”.

Tutto seguiva una sua logica.

All’attacco della via guardammo dove saliva la via e scoprimmo un mare di granito e fessure tutto intorno. Partimmo per un nuovo viaggio e quello fu anche il momento in cui, naturalmente, si formò L’Inossidabile Team, la cordata Affaticati/Castiglioni.

Da quel giorno poche altre volte andai in montagna per ripercorrere vie esistenti. Le occasioni ci furono e ogni tanto tornano, per il piacere di stare con gli amici.

Salvo qualche occasione dove riemerse il richiamo di Walter Bonatti o di qualche altro fantasma del passato l’interesse per la via o la montagna è sempre stato più che altro estetico. Per questo rarissimamente e mai per moto proprio sono stato in Dolomiti.

Sono belle, bellissime viste da lontano o d’inverno dalle piste da sci. Se ti avvicini troppo, fatta qualche eccezione, sono un ammasso di cubetti di roccia incollati tra loro. Patrimonio dell’Unesco sì, ma gli appigli ti restano comunque in mano! Volete metter le linee superbe del Petit Dru? Ancora per poco.

Considerazione estetica a parte, l’altra considerazione che mi portò definitivamente fuori dal mondo dei veri alpinisti fu che divertimento e sofferenza assolutamente non riuscivo a farli andare insieme e soprattutto che la seconda condizione non generava la prima.

Capivo che non ero un Animale da Montagna (A 1.2 – pag. 44) e preferivo nettamente la prima condizione, che peraltro si legava sempre più profondamente con il mondo fantastico dei miei sogni dove il caldo, il granito, la calma e il viaggio avevano sostituito la nord delle Grand Jorasses.

Quel giorno di agosto dell’82 fu ancora un inizio, vissi un nuovo Big Bang, strepitoso, incredibile ancor più quando l’acuta e profonda autoanalisi mi fece capire che tutto si generava dal legame esistente tra sogno e realtà. Mi trovai riequilibrato! L’inquietudine postpost adolescenziale era svanita.

Finalmente realizzavo che ero malato. Ma contento! E non ero solo!

Finalmente conoscevo la mission!!

 

CHAPTER 1.3

E’ Solo Rock’n roll, Caro Cameraccio

Un sistema onirico che genera l’arrampicata che a sua volta alimenta il sogno ed il giro non si chiude mai perché non è un cerchio ma una spirale, di sana follia.

Non è instabilità mentale ma un perfetto equilibrio elaborato dalla parte del cervello dedicata all’arrampicata, che non so bene dove sia collocata ma c’è sicuramente e occupa inutilmente buona parte della massa cerebrale con un paio di neuroni, quando va bene.

Prima di mettere mani e piedi sulla roccia quella parete l’ho già vista da qualche parte, la conosco già in molti dettagli, ho già iniziato a frequentarla e scalarla accompagnato dalla musica che entra sempre forte, prepotentemente.

La musica è ritmo come può esserlo arrampicare, ritmo interno da scoprire, ascoltare e seguire.

Musica e suonare, una passione forte che purtroppo mal si abbina all’arrampicata ma che ho sempre tenacemente cercato di tenere viva.

Nel periodo del sacro fuoco diedi spesso la priorità a suonare lasciando tanti fine settimana alla montagna. Studiavo faticosamente per imparare nuovi brani e poi suonavo a ruota libera ore e ore.

Se non faccio il grado è chiaramente per colpa della musica per cui alle fine sono sempre rimasto un buon medio arrampicatore; d’altronde allenarsi duramente, per non parlare del freddo e l’umido, provoca quell’antiestetico ingrossamento delle dita che tra le conseguenze più evidenti porta all’incapacità di infilarle tra i tasti neri del pianoforte o consente di suonare la chitarra come se ci fosse il distorsore sempre in funzione. Questa patologia, molto fastidiosa soprattutto per chi ascolta, ha una sola cura conosciuta: passare alle congas!

La salita sulla parete Est del Picco Meridionale del Cameraccio, soprannominata “La Botte”, nasce da un sogno lunghissimo che frequenta i luoghi e le storie delle mie passioni montagnine e si materializza a tappe molto distanti tra loro, lentamente, come lento è il tempo che mi piace trascorrere sulle pareti.

Ciò che segue è la breve storia di una visione che si trasforma in sogno e che da sogno diventa scalata, personale risposta al proprio profondo quesito esistenziale. Sob!

Darwin e Cameraccio

ll Picco Darwin e dietro, con le spettacolari placche nella parte alta, il Picco Meridionale del Cameraccio

 

CHAPTER 1.4

Viaggio nel tempo

Dall’inizio del mio scalare non avevo mai smesso di andare in val di Mello, un paio di visite ogni anno erano d’obbligo e, con la mia impostazione standard preconfigurata sempre attiva, sulla fine degli anni ‘80 trascinando amici e fidanzata girovagavo in esplorazione tra le placche che stanno sopra l’Oasi, tra la val Torrone e la Val Cameraccio.

Inevitabilmente qualche informazione non prevista veniva registrata, si installava nella memoria e iniziava a mandare flash così, qualche anno dopo, con l’amico Angelo, tornavo in quei luoghi salendo per la prima volta nella selvaggia Val Cameraccio per andare al Picco Darwin.

Entrando nel vivo della val Cameraccio, poco dopo l’Alpe Pioda, il trittico Picco Gervasutti/Picco Darwin/Picco Cameraccio compare improvvisamente in modo spettacolare, una cattedrale gotica dove le verticali placche del Darwin si perdono d’infilata nella parete est del Picco Cameraccio, La Botte, e la Punta Gervasutti scompare mimetizzandosi con la parete sud del Cameraccio.

La meta era la via “Il Naufragio degli Argonauti” sulla parete est del Picco Darwin, salita che dal racconto di quell’abile venditore di sogni del suo autore, Ivan Guerini, aveva acquisito una aura mitica e misteriosa, almeno per me.

Seguendo il nostro ritmo, facendoci condurre dalle vibrazioni del luogo e dalle pulsazioni interne, come in un refrain che già altre volte avevo ascoltato, lasciammo i miti al loro destino e svoltammo a sinistra in un ripido canalone verso lo sconosciuto Picco Gervasutti.

La scoperta fu sorprendente; la valletta tra il Darwin e il Gervasutti si rivelò una dimensione di luogo fuori dal tempo, lisergica e ipnotica come la lunga cavalcata nello spazio di Space Truckin’. Un luogo dove l’amplificazione dei sensi mi fece vedere, e sono ancora oggi convinto di averle viste tant’è che lo racconto sempre, delle marmotte grandi come cinghiali.

Scalammo 4 tiri sulla parete sud-est con l’intenzione di ritornarci, proposito che non rispettammo più, penso per le 5 ore che servirono per arrivarci e altre circostanze della vita. Intanto, la Botte, su cui mi era casualmente caduto l’occhio, iniziò a frequentare il mondo dei sogni.

Qualche anno dopo, estate del ‘99, L’Inossidabile Team si rimise in azione e con l’aggiunta di Adelio salimmo alla base dell’impressionante parete est del Picco Meridionale del Cameraccio con tutta l’intenzione di scalarla.

Il sogno aveva funzionato e la linea si era già materializzata, bastava solo seguirla. Scalammo lo zoccolo e poi un breve tiro ci portò all’inizio di un diedro bellissimo che avevo già avvertito.

Ritornammo subito per continuare ma un venefico luglio di piogge ininterrotte fece da trampolino per un lungo salto nel tempo che ci recapitò direttamente nel 2006, quello che sarà...

 

CHAPTER 1.5

… The Good Year &The Bad Year

Vicende varie della vita fanno sì che L’Inossidabile Team purtroppo non possa essere messo in campo per cui l’inseguimento del sogno mi obbliga a cercare una alternativa.

C’è un ex allievo di un corso Parravicini, Giulio, che in quegli anni avevo avuto modo di conoscere abbastanza bene, fortissimo scalatore anche se aimè, calcareo, a cui propongo una joint-venture arrampicatoria. Inconsapevole degli eventi che seguiranno alla sua scelta, accetta la proposta.

Creiamo cosi’ una start-up e lavoriamo per mettere insieme una squadra adatta allo scopo.

Il risultato è perfetto, siamo in quattro: il promotore e organizzatore dell’iniziativa, cioè il sottoscritto, l’astro nascente Giulio e due arrampicatori, Benjamin e Paolo S., fenomenali e un poco anarchici. Sembra una spedizione della Parravicini in incognito.

Dopo il primo approccio restiamo subito in due, il sottoscritto e Giulio, e in due resteremo salvo che in qualche occasione.

La linea che proviamo a seguire riparte dal precedente tentativo e rimane sulla parete a sinistra del lungo diedro dove passa la via Tirannosaurus Rex. La zona umana della parete.

9 giornate di salite e risalite per circa 4 giorni complessivi di arrampicata, tutte le volte a piedi da San Martino, più di 4 ore, fino a toccare il fantastico specchio di granito della parte sommitale.

Con la fine di settembre e i primi freddi salutiamo il Picco, lasciamo in parete trecento metri di corde fisse ed un po’ di ferraglia ed arrivederci al prossimo anno.

L’anno successivo, agosto 2007, ci si rimette in moto e l’azione è tanto fulminea da non crederci.

L’appuntamento con Giulio è fissato a Colico, alle 4 di mattina.

Giulio, che per definire la preparazione è stato a scalare a Valbrona fino al sopraggiungere del buio per migliorare la capacità visiva sui microappigli, passa la notte alla rotonda prestabilita comodamente sdraiato sul sedile di guida della sua Opel Corsa tenuto sveglio dall’unico pipistrello valtellinese che non si è ancora dotato di navigatore satellitare e pensa bene di incastrarsi sotto la sua macchina.

Lo recupero ancora in buono stato, ricomponiamo l’equipaggio, ritiriamo il pass per la val di Mello che, come di consueto, la gentilissima Iris ci fa trovare sotto un vaso di gerani all’ingresso del Centro Polifunzionale di Filorera e saliamo in val di Mello. Al Gatto Rosso prepariamo gli zaini e via.

Io sono in una forma strapietosa ma ovviamente e segretamente confido in Giulio.

Appena dopo il bivio Torrone/Cameraccio, passate le placche dell’Oasi, mi sorge un dubbio: mi fermo rapidamente, stracollo in fretta lo zaino, apro la tasca laterale e fermo Giulio: porca di quella eva… ho dimenticato le punte del trapano! Silenzio.

«Vabbè, niente di male dice Giulio, per questa volta dobbiamo solo risalire a controllare le fisse, se ci serviranno dei fix (tasselli ad espansione come quelli da edilizia ai quali si fissa una piastrina con foro per agganciare un moschettone e che si piantano forando la roccia con il trapano) abbiamo sempre il perforatore a mano, andiamo avanti». E proseguiamo.

Questi sono però quegli aspetti che mi infastidiscono parecchio; visto che già non sono in forma, almeno sull’organizzazione e preparazione del materiale non mi concedo di sbagliare... continuo rimuginando… all’alpe Cameraccio sosta per colazione, ricontrollo… anche il sacchetto con l’hardware, cioè chiave inglese, piastrine, scovolino, mica roba sofisticata, non c’è, (qui leggete tutte le imprecazioni conosciute) cazzo non è proprio giornata! «Dai! Su!» mi fa Giulio, «per oggi risaliamo le fisse, portiamo su il materiale e ce ne torniamo. Coraggio!»

Ok, va bene, che alternative abbiamo dopotutto? Ma sono demoralizzato e incazzato nero. Ripartiamo.

In 20 metri metto insieme il mio stato di forma con i chiari segnali premonitori e i tragicomici passati, ci penso su un secondo, concordo con me stesso, un bel respiro e lo chiamo:«Giulio, non è che oggi non sia giornata, scusami: non è l’anno! Rimandiamo e torniamo, l’anno prossimo».

Giulio è di una calma serafica, sconvolgente e coinvolgente, come la Val Cameraccio, e si rende conto del dramma. Dopo due ore siamo da Siro a mangiare. Meglio di così da un compagno che si può volere? Un Lucano?

A settembre, Giulio, accompagnato da Mario, una puntatina in parete per controllare il materiale la fa comunque, e riescono a mettere un altro tassello importante per quello che sarà un lungo…

 

CHAPTER 1.6

… Viaggio nello Spazio

VISIONI

L’inizio del viaggio è il sentiero che ci trasporta attraverso tutta la val di Mello lasciando il tempo di assorbire l’energia dalla pietra e di regolare il proprio ritmo quando ancora tutto è calmo, in quiete. Fuori e dentro. Un lungo nastro trasportatore che conduce alla zona d’imbarco.

Il lancio. Una impennata fino ad una netta virata a sinistra per aggirare la spalla del Cameraccio che si radica nel bosco di fondovalle.

La musica, il ritmo aumenta, si fa concitato. Il respiro porta energia vitale in tutto il corpo. Un fondo ripetitivo, ossessivo come la fatica e lo sguardo che corre avanti sul sentiero e conta i gradini, i passi poi le curve e ancora i gradini e i passi, con una lirica sovrastante che apre a squarci nello spazio dove appaiono veloci visioni di materia verticale.

La netta e lunga virata apre al Cameraccio, i suoni iniziano a diventare più nitidi, la musica cambia ma ancora non si svela e la dimensione verticale inizia a delinearsi. E’ il caos dell’antica pioggia meteoritica cristallizzatasi alla base della parete attraversata da due particelle elettrizzate che rimbalzano fino alla stazione intermedia.

Il ritmo a poco a poco rallenta. E’ la fase del riordino prima di lasciarsi andare. Mentre si completano i preparativi si indaga il silenzio dentro di noi cercando di captare le vibrazioni che scorrono sulla superficie della pietra prima di immergercisi.

E’ sufficiente un passo e il mare di granito ci assorbe. Un violoncello ipnotizzante introduce in una nuova dimensione dove il tempo non è più la condizione conosciuta ma può espandersi all’infinito.

Ciò che avviene nella nuova dimensione è un curioso viaggio dove ci intratteniamo lungamente con i mostri e le paure che abitano la nostra mente. Incubi che diventano a poco a poco buoni compagni di viaggio e ci aiutano a trovare il percorso che ci porterà fino al bordo superiore di questo liquido magmatico per lanciarci poi nel viaggio di ritorno dove esplosioni ritmiche, assordanti come i motori di un razzo in frenata ci riporteranno verso casa, all’inizio di un nuovo viaggio.

REALTA’

2008. Quest’anno finalmente riusciremo nella dimostrazione che l’assunto «forza della cordata = forza del più debole» è una variabile estremamente complessa. Intanto deve essere ridotta la distanza tra i termini dell’equazione e l’organizzazione, che sappiamo fa tanto, questa volta è perfetta!

Prima di muoverci, ad insaputa di Giulio, contatto la società Eliwork di Talamona.

Si va alla base della parete con l’elicottero. La scelta è obbligata per via dell’età e della forma costantemente precaria del sottoscritto.

Alla prima salita, non appena il pilota stalla il mezzo volante ed apre il portello per farci saltare su un prato a 50° gradi, da navigato esperto di volo quale mi spaccio, con gesto elegante lancio a Giulio, che è appena sceso, il materassino da bivacco. Immeditatamente viene risucchiato dal rotore di coda nel quale rischia di disintegrarsi, sparato nel vento e definitivamente perduto. Fantozziano oltre che senza più materassino.

Comunque le energie che si risparmiano sono notevoli.

Risaliamo con circospezione le corde fisse biennali, un po’ muschiate ma in ordine. Manca ancora poco meno di metà parete e dobbiamo trovare la soluzione per uscire dallo specchio di granito che abbiamo preso proprio al centro seguendo un vago diedro con una fessura cieca che stranamentesi era rivelata scalabile.

Sarà proprio l’inseguimento di queste fessure fantasma nei primi due giorni di scalata che mi fa sorgere seri dubbi sul funzionamento del mio sistema onirico; l’unico neurone disponibile che funziona da ram probabilmente è usurato e non è in grado di supportare tutte le informazioni così oltre a perderne ne inventa di sana pianta?

Sarà la radioattività del granito? No, sicuramente è un neurone creativo!

Sono sicuro, nel sogno i diedri e le fessure esistono e poi anche gli ingrandimenti fotografici fatti lo confermano. La realtà è che i diedri sono virtuali, ombre e pieghe e le fessure sono bordi che si prendono ma dove non si riesce a mettere alcuna protezione tradizionale.

Ne vengono fuori due tiri a fix, mezzi arrampicabili e mezzi no, per noi, che comunque ci portano quasi fuori dalle difficoltà.

Scendiamo in doppia fino alla cengia erbosa a metà parete e bivacchiamo seduti su morbide zolle erbose.

Il giorno dopo risaliamo le fisse e con un bellissimo tiro di placca lavorata a funghi arriviamo nella zona finale che diventa meno verticale. Dovrebbero mancare una cinquantina di metri scarsi alla cresta sommitale. Alle tre del pomeriggio per colpa ovviamente non nostra ma della batteria del trapano che si esaurisce decidiamo di scendere.

Tutto il materiale resta in parete nel sacco da recupero e con perfetto tempismo alle 20.30 come di consueto siamo stravaccati sui tavoli da Siro con polenta e spezzatino.

Finalmente arriva la giornata conclusiva: saliamo per la terza e ultima volta. “Ci facciamo portare” alla parete sarebbe il termine più corretto da usare.

L’approccio volante, da alcuni considerato eticamente non limpidissimo, si rivela sempre fantastico ed alla fine verrà estremamente apprezzato anche da Giulio.

L’utilizzo dell’elicottero effettivamente gli aveva causato un giusto e comprensibile disagio ed aveva dato il là ad un reciproco garbato confronto in merito alla delicata questione. Il garbato confronto dissolse completamente le sue resistenze dopo che ponderò che io sarei comunque andato in elicottero e lui a piedi; ciò gli rese subito più sopportabile il disagio e, anche se con un residuo di amarezza, decise che era meglio non lasciarmi da solo sul mezzo volante.

Torniamo all’azione: i 50 metri che mancavano diventano 100 e più, colpa dell’inclinazione, dal basso non ne azzecchiamo una che sia una e con due lunghi tiri arriviamo ad un balcone sulla valle di Mello, all’inizio della piatta cresta finale che in circa 100 metri, alle ore 16 e 38 del 5 di agosto 2008, ci scarrozza finalmente in cima ai circa 2.743 metri del Picco Meridionale del Cameraccio.

Passato l’effetto di sublimazione che colpisce inevitabilmente tutti gli alpinisti quando raggiungono la vetta di una montagna, amplificato dal fatto di esserci arrivati avendo scalato una nuova via che resterà nei secoli dei secoli amen, non ci resta che scendere.

Le 5 ore di corde doppie per la bonifica della parete dal materiale sparso ovunque ci esauriscono definitivamente e, quando alle ore 22.00 raggiungiamo il ricovero per capre adibito a bivacco, i programmati grandi festeggiamenti finiscono miseramente in fretta con un generale crollo dei partecipanti provocato da una bottiglia di moscato bevuta a stomaco vuoto.

Poco dopo, abbruttito, mezzo ubriaco e immobilizzato nel sacco a pelo, il sottoscritto subisce a tradimento un attacco di crampi ad una coscia, doloroso come una operazione ai legamenti senza anestesia, soffocando i gemiti per non turbare il sonno profondo in cui era caduto l’eroico compagno.

In vetta

Ore 16 e 38 del 5 di agosto 2008, in cima a 2.743 metri del Picco Meridionale del Cameraccio. La giacca Francital in terinda, viola e rosa con tasca anteriore per le sigarette, compiva 25 anni. Oggi va per i 36 ed è in splendida forma.

 

CHAPTER 1.7

Il Rientro

Tutte le corde e gran parte del materiale riempiono due sacconi che nascondiamo accuratamente alla base della parete. Li recupererò un mese dopo accompagnato da mio figlio Edoardo, sempre in elicottero e questa volta da signori, viaggio A/R.

Quello che siamo ormai certi sarà l’ultimo giorno è una giornata calma, tiepida, irreale. Ricomponiamo gli zaini e scendiamo, piano piano, la coltellata nella coscia non mi consente altra andatura. Un po’ distaccati, ognuno con i propri pensieri, senza molte parole fino a quando, sotto l’Alpe Pioda ci chiudiamo alle spalle la porta della Val Cameraccio.

C’è ancora tempo e la restante discesa per giungere in val di Mello diventa l’occasione per rivedersi il film appena concluso e finalmente affrontare l’ultimo impegnativo, fondamentale ed oramai improcrastinabile problema senza la cui risoluzione tutto resta sospeso: Come chiamiamo la via?

Nei 3 anni, in accordo tra noi, non ci eravamo mai confrontati sulla questione ma avevamo elaborato continuamente per trovare qualcosa che simbolicamente rappresentasse la nostra triennale esperienza vissuta su quella parete.

Quando si parla di feeling!

Alla fine viene fuori che, nonostante l’abisso generazionale che ci divide, entrambi avevamo pensato per primo alla musica e poi quasi agli stessi brani musicali di un gruppo hard rock quasi estinto.

Tra le due opzioni che depositiamo rigorosamente in busta chiusa sul tavolo di legno di Luna Nascente, aspettando birra e sprite, lascio compostamente a Giulio, senza influenze di sorta, la scelta definitiva.

Il Viaggio è definitivamente terminato e ciò che resta è SPACE TRUCKIN’.

650 metri di sviluppo, 17 tiri più 100 metri di cresta finale.

Tutto ciò che è stato usato, tranne dadi, friends e corde, è stato lasciato. Due fix ad ogni sosta e fix e chiodi lungo i tiri. Arrampicata prevalentemente in libera con alcuni tratti in artificiale. Difficoltà obbligata attorno al 6b/6c.

Inizia con tre tiri in aderenza sulla placca basale, poi un diedro fessurato in tre tiri porta in una zona abbattuta dove 3 tortuosi tiri, con un paio di uscite su robusta erba, conducono al muro centrale. 4 tiri di cui due per più di metà azzerati su fix e non scalati in libera e tre tiri finali dove la parete si abbatte. Conclusione su facile cresta panoramica.

La discesa è stata effettuata con 12 o 13 doppie lungo la via di salita, due delle quali hanno richiesto buone pendolate per agguantare le soste.

La roccia è bella, verticale, nulla che si muove e la chiodatura non da falesia ma complessivamente tranquilla, la scalata è naturalmente bellissima, molto varia, posso dire diversamente?

Ambiente selvaggio e solitario, martello indispensabile, bivacco abbastanza probabile, no umani, ideale per meditare, consigliabile.

 

CHAPTER 1.8

La variabile Adis

Normalmente per il vero arrampicatore o alpinista, almeno per la stragrande maggioranza di quelli che ho conosciuto, andare con qualcuno che sta aprendo una via nuovaè una perdita secca di tempo. Si fatica a che prò?

Non è che possa dargli torto; alla fine della giornata il risultato può anche essere che non hai fatto un metro di scalata!

Cosa cacchio racconti dopo una esperienza del genere? Che dopo 4 ore di avvicinamento hai risalito 300 metri di corde fisse usando le maniglie Jumar e hai passato 4 ore in sosta a far sicura? Poi li inviti a partecipare a qualcosa che non sentono un loro obbiettivo, in pratica è molto raro trovare qualcuno oltre a chi ha condiviso il progetto dall’inizio.

Ma, fortunosamente, potreste incappare nella cosiddetta variabile Adis.

Se avete bisogno di una mano e se per caso conoscete qualcuno fresco di un recentissimo corso di arrampicata sportiva nel quale siete stati istruttori, qualcuno giovane, pimpante, sveglio e atletico che non ha la benchè minima idea della proposta che gli fate, allora la proposta potrebbe non cadere nel vuoto.

E così, nel primo anno della campagna sul Picco, eccoci una fresca e bella mattina a preparare gli zaini al parcheggio della val di Mello, io, Giulio e Adis.

Ed ecco che dal bagagliaio della macchina salta fuori un altro ospite, ingombrante e taciturno: una bella corda statica da 10mm di diametro per 200 metri di lunghezza. Tipo 16/17 chili di nylon ritorto.

Dato che il programma prevede 3 giorni per cui gli zaini sono già belli carichi ecco come ci organizziamo: ognuno si caricherà la statica con turni di 15/20 minuti sperando di raggiungere in 4 ore lo spiazzo erboso un centinaio di metri sotto la base della parete, dove ci siamo già accampati altre volte.

Si parte ed io e Giulio con navigata esperienza ci offriamo per i primi due turni che astutamente allunghiamo leggermente, in pratica tutta la val di Mello, in piano, poi si inizia a salire e arriva il suo primo turno: Adis si carica la corda sullo zaino e parte. E non lo vediamo più!!

Un missile. Siamo esterrefatti e un poco preoccupati.

Il sentiero, sia sopra l’alpe Pioda che dopo l’alpe Cameraccio non è sempre evidentissimo e Adis lì non c’è mai stato. Confidiamo nel suo DNA montagnino visto che è nato in Valtellina.

Mezzora prima del punto di arrivo previsto, c’è un bivio: a destra verso il Bivacco Kima, a sinistra verso il Passo Cameraccio e verso la parete.

Lo troviamo lì. Ha letteralmente disintegrato ogni cellula muscolare delle gambe. Non si muove più ma ha anche fatto una cosa che ci ha salvato la vita. Ha portato la statica in 2 ore e mezza quasi a destinazione.

Quando ripartiamo e mi carico l’ospite sopra lo zaino m rendo conto dell’impresa eroica di Adis. Nel giro di 5 minuti crollo sotto il peso del cordone e negli ultimi passi devo alzarmi la gamba con le mani per spostarla in avanti. Siamo veramente dei deficienti!!

Mangiamo, ci infiliamo nei sacchi sotto le stelle e la mattina dopo Adis c’è, e in gran forma… la gioventù!

Dopo un brevissimo corso pratico sull’utilizzo delle maniglie jumar, attrezzi che servono per risalire le corde, oggetti che non aveva mai visto in vita sua e manco pensava esistessero, conosceva solo il Gri-Gri e il laterale, trascorre un’intera giornata risalendo corde, carrucolando sacchi, appeso alle soste, sempre di buon umore e divertendosi un casino.

Quindi un grazie infinito ad Adis e poi Giulio, grande compagno senza il quale il mio sogno sarebbe durato ancora a lungo; a Paolo e Benjamin che ci hanno accompagnato il primo giorno; a Mario che accompagna Giulio due volte e dà un bel contributo sia nella scalata che nel riordinare le fisse dopo la prima campagna del 2006; alla Scuola Parravicini che ha fornito i fix e una corda statica e infine a Iris del Centro Polifunzionale della Montagna di Filorera che ci ha sempre messo a disposizione il graditissimo pass per salire in val di Mello. Ah! dimenticavo l’Eliwork, spettacolo!!!

Il sogno prosegue.

Il bello è che la realtà è sempre diversa anche perché, come sempre E’ solo Rock’n roll, Caro Cameraccio

Giulio

Sulla lunga e stretta cengia erbosa dopo il bivacco alla base dello specchio di granito nella parte alta della parete. Giulio ha appena realizzato che gli toccherà andare da primo di cordata. Sta pensando a come farmela pagare.

 

APPENDIX A 1.1

The Curriculum Mountaineer ovvero l’Alpinista Curricolare

E’ facilmente riconoscibile anche perché non fa nulla per mimetizzarsi. E’ stato ovviamente un prescelto ma più fortunato degli altri: non sa di avere una mission! Quando il big bang termina i suoi effetti, le potenti sostanze che il sistema neuroendocrino sta rilasciando praticamente senzasosta si sedimentano nell’organismo e provocano le prime mutazioni che nella fase iniziale, ancora curabile, riguardano soprattutto la sfera comportamentale e relazionale.

Se non è un solitario patologico, lo scalatore crea e abita un suo piccolo mondo molto autoreferenziale, generalmente un gruppo organizzato o di compagni di scalata, una tribù dove il proprio status sociale è in stretta relazione allo status curricolare.

Nel gruppo sono pianificati gli obbiettivi e celebrate le vittorie e il reiterato raccontarsi le proprie gesta diventa uno dei momenti di massima soddisfazione nella vita del gruppo.

Il libero gioco dello scalare diventa poi ben presto un gioco regolamentato e per gli aspiranti ai livelli alti alti l’attività diventa un consumo pianificato di metri e metri di roccia, ghiaccio, tiri, blocchi.

A seconda del gruppo di riferimento e settore di attività troviamo dei protocolli standar convenzionali che quasi tutti seguono.

Oramai nel secolo precedente libri come l00 scalate classiche, poi le 100 scalate estreme, poi la raccolta delle più belle sul granito di qua, sul calcare di là, le plaisir, sportive, classiche, all’inseguimento della salita “la più bella del” etc.etc., hanno scandito l’esistenza di molti scalatori. Alcuni sono caduti in depressione perché non riuscivano a finire le scalate recensite in “100 estreme” mentre il figlio chiudeva la raccolta Panini dei calciatori.

Molti corrono anche negli avvicinamenti, d’altra parte si sà, il tempo è importante.

Mi sono sempre chiesto: ma per quale cippa di motivo uno deve andare a fare KundaLuna, cioè prima Kundalini e poi Luna Nascente in modo da dover correre quando si può fare un giorno Kundalini e poi con calma un’altra volta Luna Nascente? Rischiando poi di incazzarsi sulla via perché trovi la cordata “lenta” che ti rallenta e pregiudica la performance? Mai capito! Ci si allena per il vione?

Comunque si corre e corre a consumar roccia verso mete sempre più impegnative con la conseguenza che il continuo rilascio esagerato di adrenalina in breve tempo porta al secondo livello di mutazione, quello genetico.

Sopravvengono ingrossamento delle dita, espansione incontrollata dei gran dorsali, occhi come finestre sul vuoto, leggeri stati schizofrenici, amplificazione della memoria e fissazione su particolari.

L’irreversibilità totale avviene con l’avanzare dell’età quando è facile che si venga attaccati dal virus dello scialpinismo che quasi di sicuro, appena dopo i 40 anni si trasforma in skyrunning.

A questo punto non c’è più cura.

La polverizzazione della cartilagine rotulea diventa l’ancora di salvezza per guarire e sopravvivere.

Come riconoscere l’alpinista o climber curricolare?

Semplice, quando lo incontrate e ponente l’ingenua domanda “Cosa hai fatto questa estate? o lo scorso week end?”venite travolti dalla meticolosa esposizione di tutte le vie che ha fatto, con tempi, gradi, e condizioni meteo. Sono in grado di ricordarsi, e raccontarti, la sequenza di movimenti fatti sul 18 esimo tiro della via Vinatzer in Marmolada.

Tenete conto che per questa specie di scalatori il protocollo standard per una settimana di vacanza con il bel tempo prevede ”7 giorni 7 vie”, per cui non vi resta che sedervi, intanto non la smette, prendere la pastiglietta blu che avete sempre di scorta e aspettate. In alternativa fatevi squillare il telefonino, scusatevi con un gesto e rispondete a nessuno togliendovi dalla sua visuale.

L’importante è che nelle vicinanze ci sia qualcun altro a cui si possa attaccare altrimenti si mette in stand-by e quando ritornate siete fregati.

 

APPENDIX A 1.2

The Mountain Animal

Non c’è nessun senso dispregiativo nella definizione, tutt’altro!

Questa è una specie di alpinista completamente diversa da quella curricolare, molto rara.

Nel corso della mia vita scalatoria ne ho conosciuti veramente pochissimi. Di questi, ben due facevano parte del piccolo manipolo di iniziati (rif. Chapter 1.1) che era la mia tribù di riferimento.

Le peculiarità di queste persone possiamo dividerle in due aree:

1) Comportamentale

2) Operativa

1) Sono di pochissime parole, sia in azione che dopo. Anche se sono appena tornati da una impresa dove per due giorni sono stati in bilico tra vita e morte, farvi raccontare qualcosa è un’impresa altrettanto ardua. Si aprono solo dopo la seconda bottiglia e il racconto è come se fossero andati per un fine settimana a Riccione.

2) Agiscono. Punto.

Dal momento in cui escono dal rifugio diventano delle macchine da guerra. La conversazione che potete intrattenere con loro durante una scalata non esula dai comandi necessari alla progressione di cordata.

Sono indifferenti alle condizioni climatiche. Quando arrivate all’attacco della parete alle 5 di mattina e bestemmiate per il freddo, con le dita insensibili vi togliete i ramponi e gli appigli giganteschi sullo zoccolo di 4°vi sembrano micro tacche, bene, loro non fanno una piega. Scalano come se fossero al sole con 20 gradi.

Se per caso vi capita un bivacco di emergenza in parete? all’improvviso si mettono in modalità ibernazione, diminuiscono le funzioni vitali e chiudono il canale vocale. Alla mattina, quando dopo una notte di tremiti di freddo aprite gli occhi, loro sono lì tranquilli, seduti sulla cengia, che si stanno mangiando un pezzo di torrone congelato e ti chiedono: come va?

E minchia se va bene!

Sono immuni dallo scialpinismo e se fanno skyrunning è solo per mantenere efficiente il sistema cardiocircolatorio.

Al di là di ogni considerazione possibile, se queste persone sono tuoi amici e compagni di scalata puoi solo ritenerti fortunato. Quando sei con loro, qualunque cosa succeda sei sicuro che ti diverti (da solo) e a casa ci torni.

tracciato

La parete Est del Picco meridionale del Cameraccio ed il tracciato di Space Truckin'

val mello

Cascina Piana in Val di Mello dalla vetta del Picco Meridionale del Cameraccio