La sostenibile leggerezza dell'arrampicare - Chapter 2 - Conoscerete la nostra velocità - Prima Parte

 

Conoscerete la nostra velocità

Dal 2015 al 2017

 

CHAPTER 2.0

Prologo

Da un paio d’ore sono seduto su una cengia erbosa con la schiena appoggiata alla roccia intiepidita dal sole mentre il mio compagno cerca di togliersi dal casino in cui l’ho lasciato.
Le corde in mano sono il mio contatto con la realtà ma non sono lì veramente. Gli occhi e i pensieri rincorrono i giochi delle rondini nell’aria, seguono il girovagare dei ruscelli tra le placche giù in fondo valle o le tracce dei sentieri alla ricerca di qualche umano.

Ogni tanto chiudo gli occhi e mi lascio immergere in questo mondo fantastico dove il tempo per perdersi in questo modo è la condizione in assoluto più preziosa. Questa forse è la ragione principale per cui mi trovo lì, con Giulio, il motivo per cui non ci siamo mai dati alcuna fretta e così, alla fine, di giornate sul Muro ne abbiamo trascorse tante.
Poi il compagno trova un posto dove sostare e il relax finisce. Al lavoro.

Muro Del Torrone (inferiore), si chiama così. Si trova al confine tra la val di Mello e la val Torrone, un susseguirsi di placche, alberi e cenge, diedri, poi boschi sospesi e ancora muri verticali. Dalla base fino al termine il dislivello non è tantissimo, saranno al più 400 metri, ma tutti complicati e per trovarci un percorso di tempo ce ne abbiamo messo tanto.
Anche gli ultimi 70 metri, quando oramai pensavamo di finire rapidamente, ci hanno creato un bel po’ di problemi e ci siamo calati dall’alto per capire dove poter passare ma, alla fine, in cima al Muro ci siamo arrivati e forse anche con delle buone scelte di percorso e soprattutto, 2015,2016 e 2017, velocemente. Mica scherziamo!

Se raccolgo tutto il tempo diluito in tre anni di gite, perlustrazioni, trasporti e arrampicata, e lo compatto, sono come i 660 metri di corde sparse sul Muro che abbiamo riportato a valle.
Una infinità.

 

CHAPTER 2.1

Ultimo episodio ultimo anno

2017 – Con Giulio. Seguendo il sentiero per il rifugio Allievi saliamo in val di Zocca per cercare di raggiungere la sommità del Muro e capire se l’ultima parte della parete è scalabile e soprattutto se ne vale la pena. Il Muro non ha una vera e propria vetta, dipende dal punto in cui arrivate. Il termine della parete corrisponde alla cresta spartiacque tra la val di Zocca e la Val Torrone.

Arrivati a quota 2000 metri abbandoniamo il sentiero svoltando nettamente a destra e iniziamo a ravanare nei prati ricoperti da mughi fradici d’acqua. Per fortuna che dopo pochissimo incrociamo per caso una bella traccia di sentiero. Ma guarda un pò! (e ce l’avevano anche detto).

In piano e in pochi minuti la traccia ci conduce a una radura nel bosco dove vicino a un grande sasso piatto ci sono tre persone, una dozzina di cavalli e un cane che li cura.
Ovvio che c’era un sentiero comodo! Mancava solo che arrivassimo lì dopo un paio d’ore di imprecazioni costeggiando la suddetta traccia senza mai incrociarla. Non è che c’è mancato molto. Conoscendoci! Come quelli che passano la notte all’addiaccio, con la schiena appoggiata ad un masso grigio che la mattina scoprono che si trattava del bivacco che stavano cercando.
Dalla radura, lavorando con la tecnologia, gps, navigatori, altimetri e un innato intuito (culo) iniziamo un traverso nella giungla di frasche, mughi, placche, alberi abbattuti e canaloni fino a quando, dopo tre quarti d’ora, sbuchiamo finalmente sopra il grande bordo dello spartiacque, a circa 1980 metri di quota.

Assicurandoci e calandoci a vicenda ci sporgiamo dal bordo in diversi punti fino a quando dopo in paio d’ore di ricerca riusciamo ad individuare con precisione il diedro con fessura che avevamo visto e fotografato da sotto e con piacevole sorpresa, calandoci un poco sulla parete, constatiamo che la roccia è veramente bella. Vale sicuramente la pena tornarci per scalare l’ultimo salto.
Completata la missione di quel giorno lasciamo un po' di materiale sul posto e cercando di memorizzare il percorso fatto ritorniamo sui nostri passi.
Sono mesi che non camminavo e i 1200 metri di dislivello mi obbligano ad una lenta discesa.

Due weekend dopo, 22 e 23 luglio.
Mi piace l’odore dell’erba bagnata la mattina… l’elicottero atterra nella radura e Giulio scende trascinandosi un saccone da una tonnellata, la tavola da surf proprio non ci stava. Wagner di sottofondo accompagna le bestemmie della gentile copilota verso il sottoscritto che appena sceso non si è messo ginocchio a terra come un vero marines. E che cazzo! Giulio se la ride.

 

Del vecchio e glorioso saccone da recupero Cassin da 70 litri si occupa Giulio, non so neanche come riesca a metterselo in spalla. Io prendo gli altri due sacchi, il piccolo Black Diamond da recupero da 40 litri più lo zaino di Giulio (30 litri) e inizio la mia personale via crucis…cammino 30 metri, sacco a terra, torno indietro, prendo l’altro sacco in spalla e così via.

La vegetazione arriva ai fianchi ed è tutto come al solito bagnatissimo. Ci muoviamo ognuno per proprio conto sperando in questo modo di aumentare le probabilità che uno di noi indovini più o meno il percorso fatto la volta precedente e così, poco dopo la partenza, perdo subito di vista Giulio che non dovendo fare avanti e indietro in continuazione mi distanzia nonostante il carico esagerato che ha in spalla. Dopo mezz’ora lo individuo una cinquantina di metri sotto di me, siamo ovviamente entrambi fuori dal percorso che volevamo seguire ma ce la faremo.
Da bravi esploratori avevamo lasciato dei segnali come ometti di sassi e rametti rotti che però si guardano bene dal farsi ritrovare.
In 1 ora e mezzo, bagnati fino alle mutande, con 2 litri d’acqua negli scarponi, raggiungiamo l’obbiettivo. Abbiamo due giorni per chiudere la partita.

Ne valeva veramente la pena. Ci caliamo e scaliamo gli ultimi due tiri dell’opera. Prima un traverso su placca e poi 40 metri seguendo una fessura lama spettacolare che finisce proprio nel bosco sommitale, alle radici dell’albero da cui ci eravamo calati e tutto senza neanche dover pulire la roccia più di tanto dalle cazzutissime zolle erbose e sedani giganti che infestano quel giardino verticale che è Il Muro Del Torrone.
Gli ultimi 15 metri della fessura ti riportano in pace con te stesso. Il trapano fa il resto.

Trascorriamo 11 ore accoccolati nel proprio sacco a pelo nel bosco sommitale e la mattina dopo, con un tempo bellissimo, ci ricaliamo raggiungendo la grande cengia boscosa, il punto più alto raggiunto l’anno precedente e, attrezzandole dall’alto, scaliamo altre due lunghezze di corda.
Al termine risultano quattro lunghezze per superare l’ultimo muro.

Missione compiuta.

Domenica 6 Agosto: Milano, m125 s.l.m. ore 04,00 A.M. - 38° all’ombra. San Martino in Val Masino 900 m s.l.m. ore 06.30 A.M. 22° all’ombra e sono le 06.30 del mattino.
Fortuna che nella salita della val di Zocca si riesce a camminare riparati dal bosco, che poi però finisce e quando arriviamo sullo spartiacque Zocca/Torrone, a quota 2.000 m., alle ore 10.30 A.M. ci sono 27°gradi, un inferno. Quando dal bordo ci sporgiamo sulla parete per preparare le calate è come se sotto ci fosse un asciugacapelli acceso. Siamo quasi sciolti. Non ce la si può fare. Scendiamo comunque in doppia per cercare di fare il lavoro programmato. Abbiamo anche i walkie-talkie.

Durante le calate in doppia sistemiamo i quattro tiri attrezzati precedentemente e in ultimo torno a mettere piede sulla cengia alberata dove l’anno prima avevamo abbandonato al duro destino invernale tutta l’attrezzatura.
Quando la famiglia di Camalot, Friends e parenti mi vedono fanno i salti di gioia. Vado di corsa a recuperarli e mi accorgo che la famiglia è aumentata, ci sono una quindicina di rinvii, stopper, cliff, 35 fix da 10mm, cordini, un martello, chiodi a volontà, staffe, tutti in perfetto stato, che memoria! Però si vede che l’inverno in Torrone fa bene. Un paio di mille euro e una quindicina di chili da caricarci in spalla risalendo le corde fisse.

Con la fine del pomeriggio, dopo aver risalito l'ultimo salto del Muro e poi le ripide placche boschive che fino a quel momento aveva lasciato attrezzate con una corda di servizio, raggiungiamo il luogo da bivacco dove carichiamo nei sacchi tutto quello che riusciamo a farci entrare e ci incamminiamo verso valle. Questa sarà la prima operazione programmata di bonifica, quella leggera.
Dal campo base risaliamo a quota 2000, che è il limite massimo da non superare perché sopra c’è la zona di disintegrazione, e azzeccando per la prima volta la traccia che ci riporta in val di Zocca raggiungiamo il sentiero che dal quel punto va finalmente solo in discesa. Sono però 1000 metri di dislivello su gradoni che sommati ai 20 chili che abbiamo in spalla e alla giornata faticosa passata in un forno restano sempre una stronzata galattica.
Basterebbe avere del tempo in più, fare un’altra gita cercando magari qualcuno che ci aiuti, e tutto sarebbe più piacevole e meno traumatico. Solo che io tempo non né ho e così quella giornata rimarrà impressa indelebilmente nelle nostre memorie.
Quel giorno ci scoliamo i tre litri d’acqua a testa che c’eravamo portati appresso più le bottiglie di minerale, di the e Schweppes che avevamo lasciato nel saccone più tutto quello di bevibile che incrociamo sul sentiero.
Quando dico a Giulio che la sua amata Ferrarelle da 1,5 litri che si è appena scolato ha 1240mg di residuo fisso gli viene istantaneamente una colica.
Alla fontana di Ca’ Piana, oramai su terreno orizzontale, devo prima immergere le ginocchia nell’acqua per raffreddare i menischi e dopo la testa per riprendermi un poco. Fa sempre un caldo torrido ma abbiamo portato a termine la missione. Siamo felici nell’animo e sprizziamo gioia e sudore.

 

CHAPTER 2.2

Picco Meridionale del Cameraccio

Cosa c’entra il Picco Cameraccio nel capitolo dedicato al Muro del Torrone?
C’entra perché l’arrampicata sul Muro è strettamente legata al Picco Meridionale del Cameraccio, per la vicinanza ma non solo. E’ una storia da “C’era una volta” perché origina tutto dal Picco, tanti anni fa.
Quando passeggiate in Val di Mello, da metà in avanti, provate a guardare verso il Picco Cameraccio. Se osservate bene la parete Ovest, cioè il versante che guarda la Val Torrone, salta all’occhio in modo evidente una grande placca con una forma più o meno circolare, un cuore, che sembra il risultato di un carotaggio gigantesco probabilmente fatto da qualche essere alieno o simile. Bene, se ci siamo trovati sul Muro del Torrone, cioè dall’altra parte della valle, è perché volevamo andare a scalare quella placca.

Appunto tanti anni fa, nel 2002, l’Inossidabile Team si metteva in azione e con il supporto di Lorenza, che non mi conosceva ancora da molto tempo e bene, salimmo più volte ad un bellissimo pianoro che a poco più di 2.000 metri attraversa tutta la Val Torrone fino contro la parete Ovest del Cameraccio, la nostra meta.

Facendo il solito lavoro da traslocatori d’alta quota di attrezzatura d’arrampicata, in più viaggi portammo materiale da bivacco, attrezzatura, tende e tutto il necessario e lo facemmo resistendo a non un solo fine settimana senza acquate torrenziali.
La discesa della Val Torrone sotto un temporale è sempre una esperienza interessante: quasi in fondo, quando il sentiero fa uno stretto passaggio tra alte rocce diventando un toboga pericolosissimo, si scende aiutandosi con una provvidenziale catena di ferro, con l’acqua al ginocchio e allegramente pensando al trinomio acqua/ferro/fulmini.

Fu un giugno e un luglio con una pioggia che non ci diede tregua e alla fine non ne potemmo più, recuperammo tutto il materiale sempre con l’acqua di contorno e abbandonammo la Val Torrone.
Per salvaguardare il nostro rapporto Lorenza non mi accompagnò più in simili iniziative e con Antonio decidemmo di tornare alla Pala di Gondo che nel 2004 e 2005 ci rivide in azione sulla nostra via, Icoss, per un intervento migliorativo e di richiodatura.
Poi gli anni passano ma il tarlo non dimentica, continua a lavorare e così arriva il 2007 con il Picco che riemerge prepotentemente e mi vede impegnato con Giulio sulla parete Est e poi, facendo riemergere pensieri ancor più sopiti, nel 2015 rispolvera ancora il Picco Cameraccio, questa volta da Ovest. E’ il destino! Prima da Est, poi da Ovest, l’accerchiamento è completato e la vittoria sembra sicura!

E arriviamo così al 2015. Mese di Giugno.

Con l’amico Fabio che mi accompagna facciamo una bella gita in Val Torrone con macchina foto, tele potente e binocolo per procurarci supporti sui quali iniziare a fare i piani d’attacco per l’imminente conquista della parete.
Purtroppo quello che vedo, fotografo, osservo attentamente con il binocolo e poi riporto a Giulio è una vera merdaccia. Visto da vicino e da un’ottima posizione, siamo a 2300 metri circa di quota, tutto ciò che sta intorno a quel cuore di placca, che è veramente bello, fa invece veramente schifo.
Non si vede una linea decente da pensare di seguire, è tutto molto erboso e discontinuo e oltretutto, conoscendo bene la parte finale della parete, in caso di pioggia la probabilità di caduta sassi è molto probabile.
Torniamo a casa, io un po’ così, non tanto su d’umore per ciò che ho visto. Oltretutto, rientrati al paese, il depositario di tutto ciò che avviene nella valle, tale Simone che vive al bar Monica di San Martino, ci conferma che ci sono già state delle cordate che hanno girovagato su quella parete e non ne è venuto fuori nulla di interessante. Target abbandonato!
Ma mai dire mai.

 

CHAPTER 2.3

Muro del Torrone Inferiore

Quando salgo con Fabio in val Torrone ovviamente il Muro non era l’obiettivo, stava di spalle e la nostra attenzione era tutta rivolta al Picco Cameraccio ma durante la discesa, appena passati sotto la parete della Meridiana, alcune visioni inaspettate fanno scattare l’occhio dello scalatore esploratore granitico.
Il sistema oculare scannerizza tutto il visibile selezionando automaticamente ciò che potrebbe essere scalabile, pareti, diedri, fessure, placche, e lo salva nel clouds poi, tramite l’app ”Crea la tua via” impostata con le proprie caratteristiche arrampicatorie, trova la soluzione personalizzata.
E così all’occhio attento e specializzato dello scalatore esploratore granitico non sfuggono certo gli spettacolari diedri e fessure della fascia terminale del Muro.

La calamita è potente. E’ lì che dobbiamo arrivare. Punto. Non si discute
Giulio non l’ha ancora visto ma concorda…concorderà.

Il problema si rivelano banalmente quei 400 metri di parete sottostante che tra diedri, boschi, cengie erbose e placche sembrano abbastanza inestricabili. Ma noi sappiamo cosa fare. L’obbiettivo ormai è stato individuato e agganciato.

Gli operativi tornano all’opera e la ditta Traslochi in quota & C. riparte.
Volete portare dal vostro garage di Milano fino alla base di una parete tipo 200 metri di fisse, due mezze, un cordino di servizio, 70 fix, serie completa di friend, camelot, chiodi vari, stoppers, una cinquantina di moschettoni, trapano, batterie, amaca, portaledge, svariati litri d’acqua, merendine, polase, enervit, materassini etc. etc.? e volete un lavoro rapido, efficiente. Ci siamo noi e con un piccolo sovrapprezzo vi attrezziamo anche il 1° tiro. Chiavi in mano.

 

CHAPTER 2.4

2015

Quando ci presentiamo alla base della parete per la prima volta, belli pimpanti e motivati, ci troviamo di fronte al primo problema da risolvere. Il diedro che abbiamo individuato come inizio della via è difeso da un bosco verticale, umido e terroso e ad una prima ricognizione sembra comunque la migliore alternativa.
Problemi? Quando mai. Ci siamo immedesimati in Franco Perlotto che avanza nella giungla amazzonica per arrivare alla cascata del Santo Angel e alternandoci nell’arrampicata in due ore di duro lavoro superiamo i 15 metri che ci separavano dal grande pino da cui origina la parete vera e propria.

Dall’albero inizia un diedro di 50 metri che porta alla prima cengia alberata. 2 tiri, i primi 20 metri non sembravano neanche un diedro fessurato quando ci siamo arrivati sotto. Il napalm ha fatto il suo sporco lavoro. L’inizio resterà sempre un po’ erboso e umido ma poi si va e si inizia a scalare bene.
La prima cengia alberata alla sommità del diedro, attrezzata con amaca e portaledge, ci ospita successivamente per un paio di notti, una anche con l’amico Paolo che ci accompagna un WE senza pretendere nulla in cambio. Da lì iniziano 5 lunghezze che portano ad una seconda zona verde, molto verde.
Prima un diedro seguito da una fessura e poi una ripida placca in aderenza ci portano sotto il lunghissimo tetto che taglia diagonalmente tutta la parete. Attraversiamo sotto il tetto fin dove si stringe consentendoci di superarlo e andiamo a sostare poco sopra il bordo all’inizio di una grande placca che con tre lunghezze in aderenza ripida su roccia lavorata, dall’andamento ubriaco, ci conduce ad un tunnel vegetale, quasi verticale, che sbuca su una stretta cengia nascosta agli sguardi da un sistema inestricabile di rami.
Perlomeno si sta al fresco e tranquilli.

Quando ritorniamo in autunno, per preparare il materiale in parete al letargo invernale, abbiamo la bella sorpresa che ci hanno fatto sparire la corda che lasciavamo agganciata all’alberone e che ci serviva per carrucolarci e risalire in fretta il bosco verticale, alpinisticamente definibile “zoccolo”.
I rumors locali parlano di un pastore, boh! Poco importa, spero gli sia servita a qualcosa di utile. Meno male che non ha fatto la caccia al tesoro altrimenti nelle vicinanze avrebbe trovato: 2 corde appese ad un albero un paio di tornanti prima sul sentiero e martello, staffe e 6 maniglie Jumar vicino alla partenza.
6 Jumar perché non si sa mai, qualcuno che ci voglia accompagnare?
Comunque l’intoppo è positivo in quanto dobbiamo ingegnarci a risalire lo zoccolo e così troviamo una soluzione più semplice, meno faticosa e meno terrosa che utilizzeremo in seguito.

 

CHAPTER 2.5

2016

Dato che tutta la parete ha un andamento diagonale con inframezzi boschivi, calcolare da sotto la traiettoria non è stato tanto facile. Se finisci in una zona che non ti porta da nessuna parte butti via buona parte delle tue energie, materiale e soprattutto tempo che per me, nel breve, è una fonte non rinnovabile.
Quindi nel 2016, da buon esploratore parto con corredo fotografico e binoculare per salire le placche dell’Oasi e raggiungere gli Specchi della Meridiana, sul versante opposto della valle, di fronte al Muro e a metà della sua altezza, il luogo d’osservazione ideale per studiare la parete e trovare la soluzione.

Mentre cammino solin soletto lungo la Va di Mello mi viene un’idea intelligente.
Mi ricordo infatti che nell’87 e ’88 del secolo precedente quando con un variegato gruppo di scalatori avevo aperto alcune vie sulle placche sopra l’Oasi, che avevo chiamato appunto “Specchi della Meridiana”, spesso per arrivarci arrampicavo la via “Uomini e Topi” da solo.

Bello pimpante mi ripresento all’attacco della via per ripetere la storia e dopo pochi metri di scalata capisco subito che il secolo precedente era un’altra storia.
Un po' demoralizzato ritorno sul sentiero per l’alpe Cameraccio cercando di non farmene una colpa e poi andando a memoria recupero la traccia che taglia il bosco fin sopra Uomini e Topi e raggiungo gli Specchi della Meridiana.

Finalmente vedo tutto con chiarezza. Appena sopra il punto che avevamo raggiunto l’anno prima c’è una placca che porta ad un grande diedro di 70/80 metri, poi c’è la cengia con il bosco alla base dell’ultimo salto che è quello con i diedri che non si possono non scalare.
Il diedro giallo a sinistra è di una estetica superba, il diedro grigio a destra, molto aperto, sulla faccia di sinistra nasconde la sorpresa che troveremo alla fine.
Nel 2016 il poco tempo a disposizione combinato al tempo atmosferico non dà buoni risultati ma con l’aiuto di Roberto G., un amico di Giulio, riusciamo comunque a procedere.
Dalla cengia nascosta, punto più alto raggiunto l’anno prima, Giulio si arrampica su un albero dal quale, con un elegante allungo di trapano, si porta sulla placca adocchiata con il binocolo.
Con 20 metri di arrampicata in aderenza arriviamo sotto un grande tetto mettendo piede su una cengia ricoperta interamente da un pino mugo con una superficie di 10 metri per 4 su cui riusciamo incredibilmente a camminare galleggiando come su un materasso ad acqua. Sostiamo in una piccola grotta, ben riparata, alla base del grande diedro.

Pensate che al giorno d’oggi si riesce ancora a scalare in dulfer. Con Giulio ci alterniamo e scaliamo due tiri veramente super e poi quando la settimana dopo dobbiamo tornare, a causa di un mio impegno lascio solo Giulio che, convinto un suo amico, Roberto G., ad accompagnarlo chiude la partita con il grande diedro arrivando al bosco sotto il salto finale.
A questo punto mancano solo 70 metri circa di dislivello e quei due diedri da andare a trovare con l’idea di fare una doppia uscita scalandoli tutte e due così, un paio di settimane dopo torniamo in azione.

In questa stagione proprio non riusciamo a far combaciare gli impegni per cui questa volta torno io in azione perchè Giulio è impegnato con il suo Master in economia.

Eliminata senza esitazioni l’opzione “vado da solo” inizio la ricerca di un compagno verificando nella cerchia dei potenziali amici arrampicatori. Tutti, ma proprio tutti, quella domenica hanno un impegno. A questo punto Giulio mi viene in soccorso con il numero di telefono del suo amico Roberto G. che dimostrando ancora una diponibilità non comune si presta ad accompagnarmi.
Il sabato dopo insieme a Roberto G. ci facciamo le solite due orette di cammino, risaliamo 300 metri di corde fisse, un poco li capisco gli amici arrampicatori, raggiungendo il bosco.
Con i riferimenti che avevamo attraversiamo tutto il bosco fino alla base del salto finale e iniziamo una attenta perlustrazione della parete sovrastante la cengia boschiva.
Con Roberto G. alla sicura eseguo diverse manovre d’attacco e con grande rammarico, dopo un giorno di tentativi, non riusciamo a staccarci dal bosco (meglio il singolare, non riesco a staccarmi dal bosco).

La situazione si presenta così:
1) Il diedro giallo dall’estetica superba che si vede dal fondo valle è a circa una trentina di metri in linea d’aria dalla fine del bosco. Trenta metri su un sentiero sono 10 secondi, lì è un caos. Un canalone detritico dove appena metto un piede faccio partire un blocco da 70x30x30, misure precise, che rotola smuovendone altri provocando una piccola frana, piccola. Per fortuna che lì sotto il sentiero della val di Mello è abbastanza lontano e protetto da una larga fascia boschiva decisamente non frequentata. Comunque no. Grazie e arrivederci all’estetica superba.

2) Dal bordo del bosco parte un diedro grigio con una larga fessura. Mi lancio subito nella fessura off-widht, fuori misura, che riesco a proteggere inizialmente con un Camalot del 6 ma la roccia del labbro sinistro della fessura si sbriciola, è come cotta e si sfalda. Faccio alcuni tentativi ma a parte la difficoltà nel mettere protezioni per me è troppo difficile. Grazie e arrivederci anche qui.

3) Provo allora a salire più a destra, su un terreno a dir poco osceno, pericoloso, sperando di poter poi traversare da sopra e raggiungere la placconata finale.
A un certo punto, incrodato tra sassi mobili, zolle verticali e piante mi girano i cosiddetti, pianto un fix in un sasso incastrato nell’erba e torno al bosco. Così è passata una giornata verificando che i primi 20 metri dell’ultimo salto sono veramente una merdaccia.

Siamo a Settembre, molliamo lì tutto il materiale e scendiamo in doppie, io sono un po’ giù con l’umore ma va bene lo stesso, 10 tiri li abbiamo scalati ed inizio a pensare che possa finire lì. Siamo anche un poco stanchi e abbiamo voglia di cambiare ambiente, poi ci penso bene: finire lì?
Col piffero, mai dire mai, ma a questo punto i giochi potranno riprendere solo il prossimo anno. Ancora uno!

A fine novembre con Giulio torniamo in parete per preparare il materiale a trascorrere il secondo letargo invernale, sapete, i Camalot sono una specie strana e non possono essere abbandonati così, di punto in banco, senza manco un salutino, si offendono.

Era da tantissimo che non facevo più una quasi invernale e, strano a crederci, c’era ghiaccio ovunque e gli alberi erano cristallizzati come molti tratti delle corde fisse. Il tutto risultava però molto fiabesco, sembrava di essere sul set di Frozen.


E come in tutte le favole che si rispettino sappiamo che c’è sempre un drago. Anche qui. Non appena i raggi del sole raggiungono la parte alta della parete il drago si sveglia e, come tramandato da tutti gli alpinisti nei secoli dei secoli, inizia a scaglia i suoi dardi di ghiaccio, verso il basso, contro i disturbatori.

Risalendo le corde fisse nelle condizioni sopra descritte, arrivati sulle placche centrali ci ritroviamo perfettamente sulla traiettoria delle stalattiti a grappolo che si staccano dagli alberi sporgenti dalle cengie sopra di noi.

In quelle circostanze, appeso alle maniglie jumar senza praticamente possibilità di movimento orizzontale, ti girano maledettamente i coglioni perché ti ritrovi a fare quelle cagate del tipo: stai bello dritto, non guardare in alto, se riesci metti lo zaino sulla testa e così via.
E continuano a girarti perché, con quel briciolo di esperienza che adesso ti ricordi di avere, sai che non dovresti essere lì in quel momento perché sai bene che in quelle situazioni va solo di culo se una stalattite, come un missile bello grosso e appuntito, evita il casco e ti si conficca nella clavicola tra il collo e lo spallaccio dello zaino. No comment.

Ma non è ancora tutto. La fotografia che vediamo quando arriviamo al diedro sottostante la cengia boschiva è questa: 30 metri più in alto, a metà del diedro, c’è un tetto sopra cui c’è la sosta dove sono legate due corde fisse. Bene, tutta la parte finale del diedro è una goulotte ghiacciata e dal tetto scende una candela di ghiaccio di diametro 1 metro per 10 di lunghezza dalla cui punta esce timida timida la nostra corda fissa. Il sogno di ogni scalatore di cascate. Siamo lì per quello!

Ragioniamo quindi sul da farsi.

Piano A, risalire con le jumar la corda fissa, staccarsi dalle jumar e con le piccozze proseguire sulla candela di ghiaccio strapiombante che a sua volta si stacca e come la Soyuz 11 vi riporta a valle insieme ad un paio di 100 metri di corde!

Piano B, con una temperatura che non si smuove dai 5 gradi sottozero che per me sono già una cosa insopportabile, e non vi dico per Giulio che è abituato a scalare sulle calde e assolate falesie della Spagna, scendere senza raggiungere l’ultimo bosco.
Il piano B viene approvato all’unanimità e così tutta la famiglia di Camalot che ci stava aspettando insieme ai cugini della Wild Country e ad alcuni parenti affini come la mega staffa da artificiale resterà a svernare senza un ultimo saluto.