La sostenibile leggerezza dell'arrampicare - Area Riservata

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Lo so che sono pensieri già espressi, non importa, passerò sicuramente per un nostalgico dei bei tempi andati ma che ci posso fare, anzi, sono molto nostalgico della spensieratezza che avevamo a 22 anni, 5 di più o 5 di meno.

Non è che il clima generale nel nostro paese fosse idilliaco tra la fine degli anni ’70 e buona parte dei primi ’80, ricordiamo bene cosa è successo, ma noi (parlo dei quattro dell’ave maria) comunque vivevamo sereni, presi in modo totalizzante dall’arrampicata e poi perché eravamo ingenuamente ottimisti riguardo al nostro futuro.
Chi lavorava sapeva che avrebbe lavorato sempre, chi era all’università il pensiero che una volta finita sarebbe stato difficile trovare lavoro proprio non c’era, tutto era fluido, scorreva naturalmente con la certezza che le cose sarebbero comunque successe e così abbiamo solo rimandato alcuni appuntamenti della vita e ci siamo permessi di giocare e divertirci e di farlo spensieratamente per tanti anni. Cinicamente abbiamo sfruttato la situazione, vista da un’altra angolazione.

Ho amici che hanno tirato gli anni dell’università fin quasi al limite di rottura della corda ed oggi hanno il loro lavoro, soddisfacente, quello che volevano fare e continuano a giocare a fare gli scalatori. Certo che non eravamo orientati al business, i soldi non li abbiamo fatti ma mica si può aver tutto no?
Comunque è un dato di fatto: eravamo felici e contenti come dei bambini quando scappavamo ad arrampicare ed in più eravamo quasi totalmente No Logo. Nei colori e nell’abbigliamento che ho riscoperto guardando le fotografie di quegli anni ritrovo la nostra spensieratezza.

Oggi i look di chi va in montagna sono tutti uguali. Il colore imperante è il nero, nero montura per la precisione. Si vede in giro qualche macchia di colore ma sono rare ed uno che sia uno con il maglioncino fatto dalla nonna proprio non lo si vede più. Razza estinta.
Così, frugando nelle vecchie cose, ho trovate delle foto che mi sono permesso di inserire senza il consenso informato delle persone ritratte. Non l’avrebbero mai dato o mi sarebbe costato una fortuna.
Passiamo quindi all’area riservata.


La foto nella pagina seguente è in assoluto la più rara per una ragione precisa. Ritrae Lele con l’abbigliamento tipico del climber anni ’80, pantaloncino da corsa di marca indefinita e canotta, nella falesia di Leverogne, in Val d’Aosta, su un tiro corto ma duro e sottogradato, Dark Cristal, 6c+.
La ragione della rarità è il Lele in FALESIA e su MONOTIRO perché le volte che è capitato si contano sulle dita di una mano. Esageriamo, due mani.

Pochi anni dopo quello scatto chiese agli amici di consegnargli gli originali delle foto che lo riprendevano su un monotiro, peraltro pochissime, minacciando pesanti ritorsioni se qualcuno si fosse rifiutato o addirittura azzardato a farle vedere in giro e così ritirò tutte le foto che lo immortalavano in quella situazione.
Siccome nel frattempo aveva avviato una attività alpinistica di alto livello, anche se all’epoca non poteva avere una pagina Facebook o un profilo su Instagram, un profilo ed una reputazione ce l’aveva comunque e doveva mantenerla integra.
Sfortunatamente per lui, qualche negativo sfuggì da quella ricerca e casualmente è stato ritrovato 40 anni dopo in un archivio ben nascosto nel solaio della casa dei nostri genitori.
Ecco la foto:

 

Negli anni del liceo, in estate, io e mio fratello andavamo in Valsassina affrontando un impegnativo viaggio da Milano con il motorino. Lui con il mitico Garelli 3 marce ed io con il Piaggio Boxer. Nel nostro girovagare per la valle scoprimmo che a Introbio si arrampicava così, in motorino, ci andammo spesso e lì facemmo la conoscenza di un sacerdote di Lecco che portava in giro ad arrampicare un gruppo di ragazzini scalmanati con i quali in quel periodo stava aprendo e chiodando le prime vie sulla placca verticale e sulle placche appoggiate poco più avanti lungo lo sterrato che parte dal ponte sulla chiusa di Introbio.
Lui era Don Agostino Butturini ed il gruppo si chiamava Condor.
Alcune volte andavo a Introbio anche solo per stare a guardarli ma il Don era un tipo inclusivo, non ti lasciava in disparte e così in una di quelle occasioni fui coinvolto nell’apertura di una via.
Non ricordo bene con chi mi fece legare ma sotto la sua direzione dal basso partecipai all’apertura della via Paolo VI, tre lunghezze di corda con arrampicata mista libera e artificiale, VI°/A1.

1981.
Qui, tranne il sottoscritto che fotografava, proprio sulla PaoloVI ad Introbio sono ritratti gli altri tre componenti dei Fabolous 4 mentre sfoggiano le loro armature personalizzate.

Daniele

Robi

e Lele

Come vedete c’è anche Lele e non è un errore. Quella foto non rientrò tra quelle che ritirò dal mercato in quanto la PaoloVI, anche se in falesia, non è un monotiro ma una via di tre tiri, quindi è considerabile alla stregua di un itinerario alpinistico. Senza considerare inoltre che l’attrezzatura era interamente trad, chiodi e nuts. Reputazione salvata!

1982.
In questa foto, sono quello ginocchia a terra, immortalato da Lele sulla cengia della Bonatti al Capucin fianco a Daniele. Si vedono le corde doppie della ritirata ancora da recuperare.

I dettagli di questa foto sono importanti.
Come pantaloni indosso una tuta verde con banda bianca che faceva parte della divisa ufficiale della squadra della Social Osa Basket, squadra che lasciai a metà campionato nel 1977, campionato di serie D, mica noccioline anche se tanta panchina comunque.
Quella tuta è stato il mio pantalone d’arrampicata prediletto per tanti anni, il pantalone d’arrampicata per ogni occasione che ho usato e conservato religiosamente fino a quando il rammendo non superò le parti integre e si estinse naturalmente. Se faceva freddo non li abbandonavo e diventavano il sottotuta di un’altra tuta.

In quel periodo una delle rare concessioni all’abbigliamento di marca furono un paio di pantaloni alla zuava, arancioni con toppe grigie, della FILA, modello Messner che nel ’77 papà comperò a me e a mio fratello in occasione della mia partecipazione al Corso roccia Parravicini.

Fu l’unico capo di pregio posseduto in quegli anni e ricordo bene le occhiate invidiose di alcuni Istruttori che si vedevano arrivare un allievo sbarbatello con indosso un paio di pantaloni all’ultimo grido e per di più arancioni, allora un colore decisamente fuori ordinanza.

Poi recuperavo punti quando guardavano ai miei piedi e vedevano gli scarponi che portavo, in cuoio, di mio papà, 45 di piede ed almeno 25 anni d’età, completamente deimpermeabilizzati, con l’acqua si comportavano come delle spugne. Però erano stati acquistati nel negozio di Toni Gobbi a Courmayeur per cui dovevano andare bene per forza. Il problema era che io avevo il 42 e1/2 e per non rotolarci dentro usavo i tubolari da basket più 2 paia di calzettoni di lana. Spalmati in aderenza funzionavano, sui piccoli appoggi, beh!, non erano proprio precisi precisi.

Torniamo alla foto sul Grand Capucin.
Osservate il caschetto rosso marca Cassin di Daniele. Non ricordo quanti anni l’ha portato ma tanti sicuramente. Io e Lele avevamo dei caschi bianchi Galibier, un classico dell’epoca anch’essi durati un’infinità di tempo con la mentoniera di pelle cucita e ricucita più volte. I Galibier una minima predisposizione all’aereazione l’avevano mentre il Cassin di Daniele, e parlo per esperienza diretta perché l’ho avuto anch’io, una volta che te lo infilavi in testa aderiva perfettamente alla scatola cranica di cui diventava un tutt’uno senza lasciar passare un filo d’aria.

All’interno si creava così un microclima particolare per cui, ad esempio, se prima di indossarlo mettevi una goccia di shampoo sui capelli, dopo tre o quattro ore di caschetto avevi i capelli lavati ed asciugati, come con le moderne lavatrici asciugatrici.

Sempre Daniele indossa con disinvoltura una imbragatura completa, con gli spallacci: sono scomparse prima dell’estinzione dei dinosauri.
Seguivamo una filosofia No Logo, è vero, ma come tutti eravamo influenzabili e sicuramente ci influenzavamo a vicenda.

Se osservate bene le fotografie scoprirete un altro capo d’abbigliamento molto in voga in quel periodo, il gilet di lana. Trasversale alle stagioni e adatto ad ogni tipo di ambiente è indossato da tutti i protagonisti
Robi e Lele lo portano ad Introbio, Daniele lo indossa sul Grand Capucin  dove propone un altro suo must di quegli anni: il pantalone della tuta blu. Come per il sottoscritto il pantalone della tutta è stato l’indumento intercambiabile per eccellenza.