La sostenibile leggerezza dell'arrampicare - Chapter 3 - Oceano Irrazionale - Prima parte

 

OCEANO IRRAZIONALE

CHAPTER 3.0

I favolosi ‘70

 

Con la fine degli anni settanta i movimenti di liberazione dall’alpinismo chiudevano i loro cicli storici, i nuovi mattini tramontavano ma, nonostante gli scombussolamenti avvenuti, il mondo alpinistico e degli arrampicatori continuava a ruotare intorno al Club Alpino e la porta per entrarci restava di competenza quasi esclusiva delle scuole di alpinismo del CAI. Le alternative erano pochissime.

Milano aveva la sua sezione del Club Alpino con la famosa Scuola d’Alta Montagna “Parravicini”, certo, ci stavano anche i dirimpettai di Galleria della SEM, ma non confondiamo le acque! ed è lì, alla Parravicini, che si conoscono i quattro protagonisti di questa storia, il sottoscritto, Daniele, Robi e Lele. A dire il vero Lele, essendo mio fratello lo conoscevo già da tempo.

Milano aveva la sua sezione del Club Alpino con la famosa Scuola d’Alta Montagna “Parravicini”, certo, ci stavano anche i dirimpettai di Galleria della SEM, ma non confondiamo le acque, e lì, alla Parravicini, si conoscono i quattro protagonisti di questa storia, il sottoscritto, Daniele, Robi e Lele. A dire il vero Lele, essendo mio fratello lo conoscevo già da tempo.

L’ambiente è ovviamente molto istituzionale, tradizionalmente tradizionale ma già contaminato dal virus del “freeclimbing”. Nella scuola erano da poco transitati come meteore scalatori quali un certo Ivan Guerini e Lele Dinoia.
Per questi personaggi l’ambiente di una scuola di alpinismo non era spesso molto attraente ma i loro passaggi lasciavano comunque delle tracce e per chi voleva seguirle non c’erano problemi.
Intanto in giro, sulle riviste e con i film si faceva la conoscenza dei vari Berhault, Edlinger, Manolo, Ron Kauk e Separate Reality.

Avevamo impiegato non più di mezzo secondo a lanciare gli scarponi e scalavamo in scarpette o altre folcloristiche calzature. Andavamo in val di Mello, a Finale, in val Dell’Orco e ad En Vau. Poi li recuperavamo, gli scarponi, e passavamo le stagioni estive chi sul Bianco, chi in Dolomiti e poi per tutto il resto dell’anno c’erano i giardini di Milano sui bastioni di porta Venezia.
Pomeriggi interi a far traversi a sfinimento e boulder senza crash, a correre e poi ancora sui passaggi per finire con l’immersione delle dita incandescenti nella fontanella. Ogni tanto l’apparizione del guru Ivan con il suo seguito ci portava a contatto con il mito, sapevamo bene chi fosse ma noi non eravamo suoi adepti.

Ogni tanto studiavamo per sostenere qualche esame e salvare le apparenze da studenti. Qualcuno già lavorava. Eravamo attorno ai 20 anni e soprattutto nella fase iniziale di una folgorante carriera alpinistica dove tutto è un mondo da scoprire e dove gli esperimenti stravaganti che riuscimmo a portare a termine contribuirono rapidamente a farci mettere negli zaini una buona esperienza.

La nostra way of climbing era scalare scalare e scalare... semplicemente.
Se scalavamo con le Superga ai piedi e la fascia nei capelli, in braghe di tela o con la tuta da meccanico e imparavamo il mestiere del calzolaio per risuolarci le scarpette con la magica airlite lo facevamo perché così era normale fare.
Non era per atteggiarsi, un po’ sì per distinguersi dai vecchi scarponari ma, almeno tra di noi, senza alcun intento trasgressivo o dissacratorio verso il tradizionale mondo dell’arrampicata: scarponi, zuava, calzettoni gialli e camicia a scacchi Carlo Mauri. Ognuno per la sua strada, in pace.

Partivamo per le scalate e nel bagagliaio, sullo stesso piano, ci stavano la famosa guida tascabile Cento nuovi mattini, la guida Vallot del Monte Bianco, Il gioco arrampicata della val di Mello, la guida sulle dolomiti del Dinoia e la prima guida sul Verdon, ancora con i gradi UIAA e tanto artif, ah, non dimentichiamoci la raccolta 100 Scalate Estreme, che sfogliavamo con interesse solo dalla numero ottanta in avanti.

Nel frattempo e in tempi rapidissimi diventavamo tutti e quattro Istruttori nella Scuola Parravicini, mica chiacchere! e sempre molto velocemente il nostro status all’interno del piccolo circolo alpinistico milanese che gravitava attorno alla celebre scuola crebbe con l’aumentare del coefficiente di rischio personale che viene calcolato con la seguente l’equazione

dove si vede chiaramente che la difficoltà della via diventava una variabile marginale.
Per ottenere un coefficiente di rischio elevato e salire in fretta i gradini della piramide social scalatoria era sufficiente ficcarsi spesso nei guai e poi riuscire a cavarsela più o meno indenni in tempi più o meno lunghi. (Appendix 3.1)

 

CHAPTER 3.1

Una piccola storia

Avevo tra le mani una storia da raccontare, il materiale c’era e mi sembrava buono ma ero fermo alla ricerca di un motivo valido che mi spingesse a metterla per iscritto. Poi scopro che non dovevo andare lontano per trovarlo, il motivo erà già lì, nella storia stessa.

Che cosa c’era di fondamentalmente differente tra leggere le storie degli scalatori californiani, guardare stupiti Ron Kauk su Separate Reality, le foto di Ron Fawcett con Pete Livesey in Verdon e i film di Edlinger e Berhault, sfogliare la guida Il Gioco arrampicata della Val di Mello oppure leggere i grandi classici della letteratura alpinistica tra cui I giorni grandi di Walter Bonatti o 342 ore sulle Grand Jorasses di Renè Desmaison solo per fare due esempi?

Di fondamentalmente differente c’era che nei primi mancava il pesante cappello della tragedia, compiuta, incombente o scampata ma sempre tragedia, sul cui filo si dipanavano invece tutte le storie raccontate nella letteratura alpinistica.
Tranne qualche rara eccezione la grande letteratura di montagna ha avuto ed ha come protagonisti alpinisti che partono, si mettono deliberatamente nei casini, lottano per la sopravvivenza, salvano qualche sventurato compagno e poi ritornano nell’ammirazione generale del mondo alpinistico mezzi anneriti dai congelamenti subiti…e diventano eroi! E vai con le commemorazioni di chi non è tornato.

Perché e così? Se ci pensiamo solo un attimo la risposta è quasi ovvia. E’così perché racconta semplicemente la realtà dell’alpinismo la cui lunga storia è costellata di tragedie.

Un libro che avesse raccontato delle imprese di qualche alpinista sempre riuscite con tempo buono, senza mai aver lasciato un compagno per strada con buona pace per tutti quelli che non sono tornati e senza aver subito qualche grave congelamento o aver compiuto atti eroici per salvare qualcun altro, non sarebbe interessato ad alcuno e avrebbe venduto 4 copie.
Poi gli alpinisti, gli arrampicatori, sono persone come tutte (mica tanto vero) e come tutte (vero) quando vedono una tragedia si fermano a guardare. Alcuni lo definiscono istinto di sopravvivenza. E comprano il libro.

E qua torno a bomba: preso atto, parrebbe, che non si possa scrivere seriamente di alpinismo senza vere tragedie da raccontare, avrei dovuto chiudere qui e stop, fermarmi. Invece mi trovo nella favorevole condizione di poter proseguire con la narrazione perché la buona sorte ha fatto sì che le storie vissute con quei tre avventurieri a cui mi legavo, fortunatamente non spessissimo, avessero le caratteristiche per rientrare a tutti gli effetti nel succitato filone della letteratura classica alpinistica.

 

CHAPTER 3.2

Oceano

Veniamo al sodo:
La guida a disposizione era Il gioco arrampicata della Val di Mello di Ivan Guerini, capolavoro nel suo genere che solo per il modo di raccontare le salite e per i nomi che vi attribuiva era come della buona erba, stimolava curiosità e fantasia, affascinava.
Come la via che volevamo scalare, “Oceano Irrazionale” al Precipizio degli Asteroidi, combinazione di immagini sufficienti per mandare in estasi una persona.

Noi eravamo lì, perché lì volevamo essere, per il nome della via, per i nostri sogni, per la fessura della Tromba e per il VII grado.
I protagonisti fummo (fortunatamente lo sono ancora) Daniele, Robi, Lele ed il sottoscritto.

La via era stata aperta nel 1977, eravamo nel 1982 e anche se era probabile che nel frattempo ci fossero state alcune ripetizioni noi non conoscevamo nessuno che l’avesse scalata. Per noi era avventura pura.
La preparazione venne fatta meticolosamente: la “Milano ’68”, una classica sulla Corna di Medale salita in meno di 4 ore ci fece capire che eravamo pronti.

Ora scusate ma torno a raccontare al tempo presente perché mi risulta più facile.

Il giorno fatidico partiamo da Milano con la macchina di Robi, una comoda Passat S.W. che è l’unico lusso che ci concediamo.
Saliamo in val Masino e pernottiamo nei sacchi a pelo incastrati tra la parete del Sasso Remenno, lato strada, con l’auto come paravento.

È la mattina presto dell’ultimo sabato di maggio e si preannuncia una giornata spaziale.
Saliamo in val di Mello e dal parcheggio del Gatto Rosso prendiamo il sentiero, sentiero per modo di dire, che porta sulla cengia alberata alla base del Precipizio degli Asteroidi.

L’avvicinamento già presenta un paio di situazioni, camino bagnato e placche, che con lo zaino bello carico impegnano non poco ma nella squadra ci sono gli elementi giusti per risolvere ogni problema e così 3 ore dopo la partenza siamo tutti seduti sulla cengia alberata alla partenza di Oceano.

Prima di iniziare la scalata restano ancora da compiere diverse operazioni pratiche di routine che servono a caricare di tensione le batterie e, soprattutto, a lasciare del tempo per l’ultimo check motivazionale; non si sa mai, una storta improvvisa, un attacco di batteri intestinali, ma... che sfiga! e…mi spiace ragazzi ma non posso farcela in questo stato. Così finisci di fartela sotto (nel senso letterale del termine).

Tutto risulta sotto controllo, il check è superato per cui procediamo.

Prima operazione: la composizione delle cordate.
Daniele in quel periodo ha un buon feeling con Robi e oltre tutto è anche un buon antidoto alla sua chiacchera quasi senza sosta. Io e Roberto insieme sarebbe una follia, uno allergico al calcare e l’altro al granito. Per il Lele non ci sono problemi, essendo il più giovane non può esprimere preferenze. Alla fine, risolvendo anche una non secondaria questione estetica, le cordate sono fatte: Daniele si lega con Robi e io con mio fratello.

Seconda operazione: vestizione.
Sono momenti in cui a volte mi è capitato di vedere alpinisti talmente presi dalla parte che se per caso ti sfuggiva una battuta venivi fulminato all’istante. La tensione del momento fa tanto ma per fortuna non siamo mai stati così. La cura dell’abbigliamento e degli accessori però non è secondaria.
Robi e Daniele in stile metalmeccanico indossano una tuta integrale in puro cotone zippata fino al collo. Quella di Robi è color verde pisello personalizzata con il taglio delle maniche, di color arancione a manica lunga quella di Daniele. Gli Affaticati sono in perfetto california style, versione thinkpink di Franco Perlotto. Panta bianchi con toppa aperta sotto il ginocchio, capelli lunghi con fascia. Sopra i pantaloni Lele porta una maglia manica lunga a rigoni bianca e verde tipo carcerato e il sottoscritto semplicemente una polo, per dare un tocco da milanese. Tutto ciò indossato a pelle.

In Val di Mello è una giornata bellissima, siamo in pieno sole già a metà mattina e ci troviamo alla base del Precipizio degli Asteroidi, il programma prevede prima Oceano Irrazionale e poi un comodo rientro nel tardo pomeriggio, cosa si può desiderare di più?

 

Terza operazione: gli indumenti di emergenza.
La leggerezza è il primo criterio primario da seguire, non avere più peso degli altri il secondo criterio primario e noi ci atteniamo scrupolosamente ad entrambi i criteri.
Io e Robi siamo gli unici in maniche corte ma lui ha una salopette quasi a collo alto mentre io solo i pantaloni per cui mi concedo un pool di lambswool beige, ovviamente gilet, d’altro canto un pò di venticello ascensionale nel pomeriggio non potrà certo infastidirci. Tutto il resto rimane nello zaino.
Poi ci osserviamo per controllarci a vicenda, non sia mai che sia l’unico a portarla, e anche le pile frontali finiscono negli zaini che passeranno la giornata sulla cengia.

Quarta operazione: l’alimentazione.
Qui i criteri sono personalizzati ma sempre in linea con la leggerezza (purtroppo le barrette non erano ancora state inventate). Ognuno si appende la propria borraccia all’imbracatura e si mette qualche caramella, cicche e confetti nel falso sacchetto della magnesite (c’è anche quello vero). Gli Affaticati in più hanno un pacchetto di sigarette e il sottoscritto la mitica Rollei 35 agganciata anch’essa all’imbracatura.

Quinta operazione: il materiale.
Questo è l’unico ambito in cui la leggerezza resta un criterio importante ma non primario.
Prendiamo tutto ciò che può servirci: fettucce, moschettoni, qualche chiodo, stoppers, eccentrici e i fantastici Friends della Wild Country ancora abbastanza sconosciuti nel nostro paese. Siccome Robi è l’unico tra noi con alto reddito, la cordata Daniele/Robi ha in dotazione qualche friends tra cui il n. 4. La cordata Affaticati brothers un solo Friend n. 4.
Poi siamo nell’82, in piena newage, e siamo anche istruttori del CAI ma il caschetto su Oceano no, proprio non ci và! E così anche questo utile accessorio resta nello zaino a prendere il sole sulla cengia insieme a tutto il resto che avevamo scartato.

Ultimissima operazione: le scarpe.
In quell’epoca, se non c’erano motivi particolari di terreno, di appendersi all’imbrago le scarpe per la discesa non si prendeva proprio in considerazione. Avevamo ai piedi le mitiche Asolo Canyon o Chouinard, risuolate con l’airlite mescola marrone, che facevano il loro egregio lavoro anche in discesa.

Senza un ordine preciso, durante lo svolgimento di queste operazioni e in conseguenza della leggerissima, ma proprio leggerissima strizza, dai quattro dell’ave maria vengono sbrigate altre quattro operazioni individuali di ulteriore alleggerimento e poi all’allaccio della stringa, quando tutto è pronto, deciso e non si può più tornare sui propri passi, un ultimo pensiero a John Belushi e via che si va!
Quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare!
In versione originale: when the going gets tough, the toughs get going!

 

CHAPTER 3.3

I Think pink

Partenza e via! I primi due tiri, la placca verticale e poi il traverso verso sinistra per andare a prendere le fessure che ci spareranno fino alla tromba, il sistema di fessure strapiombanti che caratterizza la via, sono molto sofferti per la tensione così, quando le raggiungiamo, per rilassarci emotivamente iniziamo a scalare mettendo in pratica la TPRR, ovvero la famosissima Tecnica di Progressione a Rischio Rallentata.

Questa è una tecnica che viene tramandata dai forti scalatori solo oralmente e sottovoce, non la si trova riportata in alcun manuale tecnico per una questione di pudore perché, appunto, il suo utilizzo è riservato ai soli estremamente esperti.

Stravolgendo tutte le basilari norme della progressione in sicurezza della cordata, patrimonio e vangelo di ogni Istruttore di Alpinismo del CAI, la TPRR consente, a fronte di un apprezzabile beneficio psicologico, di rallentare la scalata rendendola estremamente pericolosa.

Al contempo è molto semplice da imparare e in più ha l’innegabile vantaggio di poter essere utilizzata su ogni tipo di terreno alpinistico.

Ecco come si procede: i primi di cordata salgono insieme, uno dietro l’altro, a pochi metri di distanza in modo da tranquillizzarsi a sostenendosi psicologicamente.

Per migliorare il risultato è consigliato:

- che i due capicordata utilizzino le stesse protezioni veloci, stopper e friends, per rinviare le proprie corde;

- nel caso si disponga di un solo friend utilizzabile, trascinarlo nella fessura mentre si arrampica in modo che entrambi gli scalatori abbiano l’ultima protezione sempre vicino;

- cercare di attrezzare le soste con dadi e friends moderando l’uso dei chiodi tradizionali.

Altre caratteristiche importanti di questa tecnica di progressione, se applicata correttamente, si ritrovano nell’aumento dell’aleatorietà delle soste e nel caso in cui queste debbano essere attrezzate in una fessura, nel sovraffollamento delle stesse con conseguente difficoltà nella gestione delle manovre di corda.
Per tutte le caratteristiche appena riportate mi sento quindi di sconsigliare vivamente l’utilizzo della TPRR a meno che non ci si reputi estremamente esperti!

Cosa succede se uno dei primi di cordata malauguratamente dovesse cadere lo si trova invece riportato in tutte le relazioni della Commissione Tecnica Materiali che riguardano sia la rottura delle corde dovute allo scorrimento sul medesimo ancoraggio che le conseguenze da impatto di due corpi tra di loro.

Riprendiamo le fessure! Oramai siamo in ballo.
Daniele conduce da primo la sua cordata e lo sta facendo in pratica fin dall’inizio delle fessure.
Il suo compagno, Robi, soffre infatti di una gravissima allergia al granito che si manifesta all’improvviso e nei modi più strani così, non appena inizia il primo tiro in fessura, notoriamente una conformazione tipica del granito che si scala in dulfer o ad incastro, ci mette, per sbaglio, una mano dentro strambandosi immediatamente il polso e, cazzarola, guarda tu che sfiga, non può più arrampicare da primo.

Daniele incassa il colpo senza proferire parola e poi con una espressione ironicamente compiaciuta si mette a guardare il compagno mentre questi inizia a prepararsi per mettere in atto la tecnica di progressione in cui finalmente potrà dimostrare la sua innata maestria nell’esecuzione dei nodi.

Fin quando le fessure sono verticali Robi comunque se la cava arrampicando ma, arrivato al vertice strapiombante della Tromba come farà? Lo vedremo.

La cordata Affaticati sta procedendo invece in rigorosa alternata dall’inizio così a Lele tocca arrampicare da primo il penultimo tiro in fessura, per l’esattezza due fessure parallele che a poco a poco si allontanano, una lunghezza di corda che io trovo durissima poi a me, in quanto maggiore d’età, viene riservato il tratto finale della Tromba.
Quella lunghezza di corda sarà il mio primo viaggio nella psichedelia.

Daniele parte dalla sosta e non appena rinvia la corda nel primo chiodo parto anch’io e lo seguo a pochi metri di distanza. Siamo entrambi da primi di cordata in corretta applicazione della TPRR e, giusto per rendere più aleatoria la sicurezza di Daniele, ogni tanto gli tolgo le corde dai rinvii per infilarci le mie. Penso che scoprirà questo dettaglio quando leggerà il libro, a 37 anni di distanza.

Nella seconda metà del tiro la fessura strapiombante devia nettamente a destra e si allarga decisamente fino alla sosta successiva. Con un solo Friend n.4 a disposizione negli ultimi 7/8 metri non si riesce a mettere alcuna protezione, si deve solo scalare senza potersi assicurare.

Quando arrivo all’inizio di quest’ultimo tratto sono già in fase extrasensoriale da un po'.
Inizio a lottare abbracciando disperatamente il bordo esterno della fessura e strisciando con il corpo cerco incastri di ginocchio e tallone con la gamba sinistra.
Sono immerso in questa condizione mistica quando mi scappa l’occhio verso l’alto e, porca boia vedo sporgere la tuta arancione di Daniele dalla nicchia della sosta, è già arrivato, non è giusto!

Riparto deciso nel mio lavoro di incastro corporeo quando ad un certo punto percepisco chiaramente che sto scivolando all’indietro, panico immediato e paura ma dopo 15 centimetri mi fermo e con il cuore a mille analizzo la situazione per capire cosa è successo.
Non ci posso credere! La mia scivolata si è fermata quando la toppa aperta sotto il ginocchio dei pantaloni si è impigliata in un quarzo sporgente. Think pink è puro pensiero positivo. Mitico.
In quel momento riguardo la tuta arancione già in sosta e mi vengono le lacrime agli occhi. Non ho più alternative. Riparto a razzo e raggiungo Daniele.

Mentre Lele ci raggiunge arrampicando, io e Daniele ci deliziamo dello spettacolo offerto da Robi che si gingilla nel vuoto con i suoi nodi prusik. Risalita della corda in prusik! e vai con l’ulteriore rallentamento.
Poi saltiamo tutti e quattro sul Pulpito dell’Eremita e finalmente siamo fuori delle grandi difficoltà, abbiamo fatto il 7° grado, non ci ferma più nessuno. Siamo forti, finalmente rilassati e certi del risultato finale.

La seconda metà della via ci regala un fantastico lungo diedro di 80 metri, facile, senza possibilità di proteggersi e dove sperimentiamo la sosta a bong umano, cioè ti incastri nella fessura e fai sicura a spalla e poi la larga fessura di 5°, nella quale il sottoscritto quasi ci rotola dentro.


Questo tratto di parete ancora ripido si adagia a poco a poco lasciando spazio alle placche finali in aderenza dove la sensazione di trovarsi in mezzo ad un oceano, irrazionale, diventa reale fino a farti naufragare finalmente in salvo, così pensi, sui boschetti sommitali.

Immersi nella condizione speciale di quella giornata non ci eravamo proprio preoccupati del trascorrere del tempo. Robi alla fine aveva addirittura scalato da primo nonostante il granito e ci eravamo tutti rilassati, tanto non avevamo mica fretta, no?
Ma, come si sa, in montagna il tempo è una variabile non di secondaria importanza!
Soprattutto scorre, sempre.

 

APPENDIX 3.1

Il Club Alpino e le scuole di alpinismo rappresentavano allora, con gli uomini e le idee, l’elite alpinistica e i custodi di quella visione eroico/romantica dell’alpinismo che nel lato B della medaglia si nutre di ideali che hanno ben radicate radici in un approccio un poco sessista all’andar per monti.

Certamente in questi ultimi 40 anni ci sono stati dei miglioramenti, ma lenti, lenti.
Responsabilità del CAI? In parte anche, ma non solo.
Fin verso la fine del secolo scorso (‘900) il Club Alpino ha avuto il monopolio quasi assoluto dell’accesso alle pratiche alpinistiche, quindi dal parallelismo CAI-Montagna potremmo dedurre che di questa visione ne sia la matrice unica.

Non è così.
Io penso che il percorso sia inverso, che siano i singoli individui a portarsi in dote questa condizione.

Le motivazioni che spingono l’essere umano ad andare a scalare sono molte e tra queste alcune sono particolarmente potenti.
Chi decide di scalare una montagna cerca l’avventura, vuole confrontarsi con l’ignoto, sfidare il rischio per vincerlo, possibilmente, e immagino sappiate che tutto ciò è per natura privilegio del solo genere maschile. Potrebbe essere diversamente?

A cosa porta un ingaggio simile? Estremizzando e sintetizzando al massimo potremmo dire: al delirio di onnipotenza? Probabilmente Si!
In modo soft un famoso arrampicatore identificò questo stato con la frase, presa in prestito, “Camminare 3 metri sopra i prati”. Una sensazione di forza, potenza, sicurezza.
In modo ugualmente soft un famosissimo alpinista riportò questa sensazione all’interno di un ambito un po' diverso e la identificò con la schizofrenia.

Tornando al piccolo mondo degli alpinisti, agli inizi del secolo scorso Eugenio Guido Lammer, allievo del noto filosofo tedesco Friedrich Nietzsche, scrisse un libricino che intitolò “Fontana di giovinezza”. Vi trovate teorizzate le emozioni e le sensazioni di chi decide di affrontare il rischio in montagna: cioè noi!! Si tratta ne più ne meno della teoria del super uomo rivista con l’alpinismo come teatro. Non è inquietante pensarci? E pensare che ci sei in mezzo?
Io sono convinto che non ci sia alcun problema o connotazione negativa in questo.
E’ un dato di fatto che determinate esperienze portino a provare sensazioni del genere descritto. L’importante è esserne consapevoli, capirne gli effetti ed intuirne le possibili conseguenze, che possono anche essere pericolose. Di conseguenza, a mio modesto parere, dare la giusta importanza a ciò che facciamo, avere un sano spirito di autoironia e soprattutto essere coscienti che tutti rientriamo in leggi statistiche sono i comportamenti che ci consentono di governare il mostro, e assaporare il trionfo.