La sostenibile leggerezza dell'arrampicare - Chapter 3 - Oceano Irrazionale - Seconda parte

 

CHAPTER 3.4

Dal tramonto all’alba

Tramonto

Sui prati sommitali del Precipizio è il tardo pomeriggio di una fantastica giornata di fine maggio.
Maggio è un mese bellissimo, le giornate diventano lunghe e il tramonto lascia sempre più spazio alla luce, hai scalato Oceano, l’adrenalina è a mille, non vorresti lasciare quel luogo ma è piuttosto tardi quando arriviamo sui prati sommitali.

Per la salita avevamo trascritto la relazione su due fogli di carta, uno per cordata, sottolineando la successione delle lunghezze di corda con evidenziatori di diversi colori, per non sbagliarci, e avevamo anche ritrascritto il percorso di rientro.
La discesa, come sommariamente e sinteticamente descritta nella guida, si svolge alle spalle del Precipizio in un grande canalone colatoio che si segue sul lato orografico sinistro fino al punto in cui si stringe e fa un ripido salto che si scende con alcune doppie fino alla cengia alla base della parete. Viene consigliato di stare alla larga dal fondo del canalone dove ci sono grandi massi incastrati.
Ovviamente non esistono tracce di passaggio ma, dov’è il problema.
No problem.

Quando, attesi da molto tempo, i quattro dell’apocalisse arrivano finalmente sul posto e iniziano la discesa, in men che non si dica con un paio di veloci calate in corda doppia sui ripidi fianchi erbosi del canalone si ritrovano precisi precisi indovinate dove? sul fondo del canalone, e il sole tramonta preannunciando l’oscurità.
In quel momento i quattro dell’ave maria e dell’apocalisse guardandosi negli occhi pensano alle loro pile frontali lasciate negli zaini sulla cengia alla base della parete.

E la luna non ci sarà in quella notte di maggio e a 2000 metri, dopo una splendida giornata di sole arriverà come sempre una notte di caloroso freddo e la temperatura scenderà verso gli zero gradi (sembra di leggere un vero racconto d’alpinismo).

Siamo alla fine di maggio di uno di quegli anni nei quali d’inverno nevicava tanto e nel canalone, in prossimità di alcuni massi incastrati nel suo fondo si sono formati grandi accumuli di neve. Ed è lì che ci ritroviamo, nel suo fondo, dove peraltro sentiamo scorrere un torrente.

E’ quasi buio pesto e stiamo procedendo su un nevaio accompagnati da un sostenuto rumore di fondo provocato dal torrente che ci scorre sotto i piedi. Il nevaio termina contro un masso e lì vediamo un buco. Tra la neve e il masso c’è proprio un buco nero attraverso il quale si vede solo nero e non si capisce che c’è sotto.
Ma, ci domandiamo, se siamo su un nevaio, con un buco, e sotto c’è del vuoto non è che per caso ci troviamo su qualcosa di pericoloso?
Cazzarola stanno finendo le sigarette.

Dall’inizio della giornata fino a quel momento non si erano fatti grandi discorsi, gli Affaticati e Daniele in parete sono di poche parole e anche Robi un po’ si era dovuto adeguare.

Questo è invece il momento in cui dobbiamo parlarci e analizzare la situazione per decidere che fare. Tornare indietro per ripidi prati umidi è impossibile, con mossa astuta avevamo prontamente recuperato le doppie senza prima fare un sopralluogo del terreno quindi l’unica scelta che ci rimane da prendere in considerazione è di continuare a scendere.

Quando l’alternativa è una sola, come apprenderemo in seguito, bisogna sempre allertarsi in quanto facilmente potrebbe trattarsi di una “sola” alternativa ma con la “o” aperta così, quando realizziamo definitivamente che l’alternativa è veramente una sola ecco che tiriamo fuori le unghie e, come sempre, da lì in avanti daremo il meglio del meglio. Ragazzi, mica chiacchere e distintivo!

Pescando nelle nostre grandi esperienze arrampicatorie arriviamo rapidamente alla conclusione che, trovandoci come sospesi sul fondo di un colatoio, se avessimo lanciato una doppia nel buco nero prima o poi avremmo toccato il fondo…del colatoio.
Nero per nero ci prepariamo per scendere in corda doppia. Essendo il prosieguo della discesa una incognita dobbiamo da subito risparmiare sul materiale senza abbandonare troppi chiodi in giro per cui Daniele prepara la classica “doppia per chiodo solo”, che suona un po’ come il titolo di una sinfonia.

Al buio, tastando il masso su cui ci troviamo, trova la fessura giusta in cui martellare un chiodo, uno knifeblade, su cui strozza un cordino. Prima di calare la corda nel buco ci lanciamo alcuni sassi per cercare di capire qualcosa dal rumore dell’impatto ma non sentiamo niente, è preoccupante ma appunto, senza opzioni diverse, caliamo una doppia da 50 metri.

Chi scende?
La regola non scritta che si applica in casi delicati come questo è “chi attrezza la sosta la prova”. Daniele è perfettamente consapevole di ciò che ha fatto e si cala.
Dopo un poco sentiamo urlare. E’ arrivato, dove non si capisce, ma da qualche parte certamente perché le corde si sono allentate.

Lo raggiungiamo e fino a che non atterriamo con il culo sulla neve non ci rendiamo conto di dove siamo finiti. Fantastico, siamo su un altro nevaio. Ricostituita la squadra ci apprestiamo a recuperare le corde della doppia.
Avevamo due corde nuove di pacca a cordata, da 50 metri e 9mm di diametro. Quelle mie e di mio fratello le avevamo prese il giorno prima dal Barba nel suo negozio di Rovagnate a fronte di una promessa di pagamento. Eravamo studenti squattrinati e ogni tanto si sfruttava il Barba che capiva la situazione.

Iniziamo a tirare una delle corde e naturalmente, per quelle strane circostanze che provocano un accumularsi di sfiga su sfiga, come riportato nella teoria delle code in statistica, quasi al termine dell’operazione la corda si blocca incastrata non si sa dove.
L’unica fortuna sta nel fatto che il nodo di giunzione delle due corde l’avevamo appena recuperato e quindi lasciamo lì, al suo destino, una corda sola, la mia, nuova, non ancora pagata e proseguiamo la discesa.
Il nevaio in breve termina e ci ritroviamo a camminare nel greto del torrente, sui sassi in mezzo all’acqua.

E’quasi mezzanotte e inizia a far freddo veramente.
Man mano che procediamo cautamente nel torrente sentiamo il rumore di fondo dell’acqua che continua ad aumentare fino a quando il torrente finisce in una forra e diventa cascata.
Ci troviamo proprio nel fondo del canale su un ballatoio sopra un salto dove l’unica cosa che si capisce è che sotto c’è una cascata. Sporgendoci per cercare di vedere qualcosa sembra che, a non si sa quale distanza, ci sia una pietraia o qualcosa di simile.
La notte è senza luna ma il cielo stellato crea un esile chiarore che lascia intravvedere qualcosa.

Siamo quasi contenti ma in quel punto il canalone è molto stretto e le pareti ai lati non ci lasciano intravedere alcuna possibilità di uscita: come facciamo a scendere senza finire nella cascata?
L’ho detto prima, ragazzi: mica chiacchere e distintivo. Non siamo degli sprovveduti, la soluzione sarà l’unica possibile, la migliore.

Con la rara capacità che ci contraddistingue nel comprendere, analizzare e risolvere situazioni complesse nei momenti difficili, in breve formuliamo l’ipotesi, a costo di usare tutti i pochi chiodi a disposizione, di scendere in doppia chiodando a piccoli pendoli una diagonale su una delle pareti del colatoio in modo da tenerci alla larga dalla cascata e arrivare, dove non lo sappiamo ancora, ma intanto saremmo scesi ancora un poco.
Siamo dei geni e ciò che ci apprestiamo a fare sarà la straordinaria opera di formidabili geni ma: chi fa l’operazione?
Robi ha il polso strambato, è fuori gioco, a Lele va bene qualunque soluzione e lascia la scelta, è il più giovane, io sono per aspettare domattina mentre Daniele vorrebbe provare.
La scelta è fatta. Và Daniele. Daniele se fosse nato nei primi del ‘900, sarebbe stato uno di quei ragazzi che sul Piave avrebbe assaltato da solo l’esercito austriaco eclissando le gesta di Enrico Toti.
Questa volta attrezziamo la sosta con tutti i crismi. Siamo istruttori!

Appena ci sporgiamo dal ballatoio il rumore della cascata diventa assordante per cui capiamo subito che possiamo scordarci di avere una buona comunicazione verbale, ma così è e non c’è altro da fare. Daniele è pronto, si mette in spalla le corde che svolgerà durante la discesa per non farle cadere nell’acqua, saluta e parte.

Da sopra, comodamente seduti sul bordo del ballatoio, iniziamo a sentire la musica prodotta da Daniele, passi di corsa, fruscii di corde e tintinnii di chiodi martellati.
Cazzarola, mica è facile scendere in corda doppia in diagonale, al buio, cercando qualche fessura per poi martellarci un chiodo alla cieca, rinviare le corde, calarsi, pendolare di nuovo alla ricerca di un altro punto in cui piantare il chiodo successivo. Daniele però è un grande e non molla, forse impreca anche parecchio e ad alta voce ma non sentiamo nulla.

Con il nostro pieno supporto psicologico è lì da solo, nel buio, che lotta a pochi metri di distanza contro un sifone d’acqua che fa un rumore bestiale e tenta di assorbirlo e che alla fine ce la fa…!

Tlin, tlen, tlin…sfruscc…quando improvvisamente percepiamo questi suoni capiamo immediatamente cosa sta succedendo a Daniele: tutti i chiodi che aveva piantato per scappare dal sifone sono saltati uno dopo l’altro e lui è finito nella cascata.
Nel buio, in silenzio, è stato assorbito in un tubo d’acqua a pressione di mezzo metro di diametro, una condotta forzata, come scopriremo.

Da quando è scivolato non riusciamo a sentire nulla al difuori del frastuono dell’acqua e non sentiremo più nulla per oltre mezzora. Continuiamo a chiamare ma niente, nessuna risposta. L’unica cosa che ci fa capire che qualcosa sta succedendo è data dalle corde che continuano a restare in tensione, poi si allentano, tornano nuovamente in tensione, poi si allentano ancora, allora è vivo, pensiamo.
Passa mezzora quando, guardando dal ballatoio da cui siamo tutti e tre affacciati e in ansia, vediamo un’ombra che si muove: è Daniele, grande, è arrivato, urliamo, lui urla, non capiamo nulla ma se si muove è una buona cosa.
Continuiamo una conversazione a urli in cui probabilmente Daniele ci chiede di scendere e raggiungerlo e noi gli rispondiamo: aspetta un attimo che ci pensiamo.
I tre a monte devono decidere cosa fare e discutono sulle alternative possibili valutando i pro, pochi, e i contro, tanti, di una doccia gelata a mezzanotte.
In breve tempo Daniele realizza che i tre a monte non hanno nessuna intenzione di raggiungerlo in quelle condizioni e aspetteranno l’alba e così, forse un po' demoralizzato, si ranicchia su un sasso e si mette in stato di autoibernazione controllata probabilmente pensando: questi sono i veri amici!

Alba

Come Daniele passerà la notte lo scopriremo solo all’indomani. Nel frattempo io, Lele e Robi ci alterniamo nell’incastro in fila per tre seduti sui sassi nel greto del torrente con i piedi quasi a bagno. La posizione di mezzo è la più ambita perché si ha pancia e schiena riparati e quasi al caldo. Godo nell’infilare le braccia nel mio gilet di lambswool da bivacco.
Abbiamo ancora qualche sigaretta, per fortuna Robi non fuma, e ci mangiamo le ultime cicche ma fa un freddo porco e non riusciamo a resistere oltre le 5 della mattina. Al primo chiarore dell’alba decidiamo che dobbiamo scendere e raggiungere subito Daniele.
Lo vediamo là sotto, sdraiato e immobile, su un sasso in mezzo a un nevaio, quello che ci era sembrato una pietraia. Proviamo a chiamare ma non ci risponde quindi iniziamo a preoccuparci. Non possiamo aspettare oltre.

Tuffarsi con le doppie in una condotta forzata alle 5 e mezza con un freddo cane è una esperienza che ti segna per tutta la vita.
Appena ti sporgi dal ballatoio e capisci cosa ti sta aspettando, la volontà si azzera e ti lasci andare. Cazzo, è veramente brutto. Forse al buio sarebbe stato meglio!
20/25 metri di salto e poi un canyon d’acqua che finisce sotto il nevaio e vediamo le corde che passano proprio di lì. E che cavoli, non siamo mica Rambo 1,2 e 3!

Non ci possiamo credere...Daniele è sceso nella cascata, ha percorso il canyon pieno d’acqua, si è infilato sotto al nevaio ed è riemerso in superficie poco dopo attraverso un buco.
All’inizio non capiamo come sia riuscito a fare una cosa del genere muovendosi completamente al buio ma non impiegheremo molto per scoprire che era stata la disperazione a dargli la forza necessaria per uscire da quell’incubo. Se non avesse fatto in quel modo sarebbe finito annegato.

Scendo per primo.
Dopo due metri capisco che non c’è altro da fare e mi lascio scivolare nella cascata.
Non tocco la roccia con i piedi per cui la pressione dell’acqua mi tiene incastrato proprio sotto il getto d’acqua e la discesa è lenta, terribilmente lenta perchè dovete provare a far scorrere le corde completamente bagnate in un discensore.
Il freddo e l’acqua gelida sulla schiena mi bloccano il respiro e poi riesco a respirare solo se non alzo la testa. Avanti. L’acqua entra nel collo, nelle maniche, arriva all’imbraco, prosegue nei pantaloni e gela tutto. Arrivo alla fine della cascata.
Quando finalmente riesco a spostarmi dalla sua verticale e uscire dal getto d’acqua mi ritrovo in un canyon dove inizio a tirare le corde cercando disperatamente dei sassi su cui salire con i piedi per non immergermi completamente. Poi scivola un piede e vado dentro fino al collo, porca miseria, non è possibile.
Continuo a tirare le corde indietreggiando verso il buco sotto il nevaio con l’unica certezza, speranza, che seguendole, siccome le corde erano ancora legate all’imbragatura di Daniele, prima o poi l’avrei raggiunto. E cosi avviene, completamente congelato lo raggiungo e dopo di me Robi e per ultimo Lele.

All’epoca Robi oltre al granito non amava per nulla l’acqua e non sapeva nuotare.
E’ così terrorizzato dal rischio di finire in acqua che mette in pratica tutti gli stratagemmi possibili, tra cui la sua famosa spaccata frontale a 180° che allora era l’unico a riuscire a fare oltre a Bruce Lee ma, quando le pareti del canyon si allontanano ulteriormente anche lui finisce con l’acqua alla gola.
Per tanto tempo rimarrà convinto che avrebbe potuto essere il primo uomo ad un passo dal morire annegato imbracato in una corda doppia in un posto totalmente improbabile sotto gli occhi di tre amici surgelati, da guinness dei primati. Probabilmente fu quella circostanza che tanti tanti anni dopo, passati i quaranta, riemergendo dall’inconscio, gli diede la motivazione per imparare a nuotare e, a suo modo, diventò un nuotatore perfetto: stile impeccabile e capacità infinita. All’orario di chiusura della piscina, alla 140esima vasca, lo tiravano fuori con gli arpioni come un tonno dalla tonnara (nuotava con il walkman anfibio per darsi il ritmo e non sentiva più cosa succedeva intorno a lui).

Siamo finalmente tutti riuniti sul nevaio. In tre in piedi, rintronati dal freddo, che guardiamo Daniele, sdraiato sul sasso, ancora vivo, dopo una notte gelida e bagnata.
Non riesce a muoversi, è contratto in tutta la muscolatura, potremmo appenderlo ad affumicare come un baccalà. Pietosamente lo solleviamo e lo trasportiamo, nella posizione Cristo in croce, alla parete del canale dove lo appoggiamo.

Con il primo tepore della giornata iniziamo il massaggio per smollarlo e poi, per guadagnare tempo, giustamente perchè fino a quel momento ne avevamo già perso abbastanza, decidiamo che mentre Lele e Robi procedono nella delicata operazione con Daniele il sottoscritto avrebbe recuperato le corde completamente fradice e proseguito la discesa per trovare il percorso e attrezzare le successive calate in doppia.

Tutte le circostanze di quel momento, compreso il senno di poi, avrebbero consigliato di aspettare! Prima avrei dovuto asciugare un po' i vestiti e mi sarei dovuto riscaldare al sole. Avrei così rimesso in funzione i muscoli intorpiditi dal freddo e, più importante di tutto, si sarebbe riattivato il mio neurone surgelato insieme ad alcuni circuiti sinaptici, anche pochi, ma almeno qualcuno sarebbe ripartito (compresi quelli dei compagni presenti).

In quel momento però anche tutti i campanelli d’allarme sono surgelati tant’è che, facile da immaginare, parto per la missione e come prevedibile, ancora facile da immaginare, il disastro è lì che ti segue, paziente, ammiccante, tanto non ha fretta.

Porto con mè tre corde e, udite udite, tutti i chiodi perché erano sì fuoriusciti dalla roccia facendo finire Daniele nella cascata ma erano ovviamente rimasti agganciati alla corda.
Arrivo al primo salto di roccia dove trovo un bellissimo alberello su cui preparo con cura la corda doppia per calarmi.
Passo una corda attorno all’albero, faccio i nodi sui capi e lancio la corda che naturalmente si aggroviglia pochi metri sotto la sosta. Poi mi assicuro alla doppia, verifico che il discensore sia a posto e che il marchand di sicurezza entri in funzione, lego le altre corde sulla schiena e inizio la discesa.
La calata è verticale, poi la pendenza si abbatte progressivamente e come uno scivolo arriva ad un altro ballatoio sopra un secondo salto di roccia.
Scendo tranquillo qualche metro a velocità controllata fino all’ingarbugliamento delle corde che devo sbrogliare. Mi giro su un fianco inclinandomi per raggiungerlo quando, improvvisamente, la velocità di discesa diventa non più controllata ma decisa dalla forza di gravità.

 

CHAPTER 3.5

The Faboulous 4

Trovandomi quasi girato a valle per prendere la corda ingarbugliata mi ritrovo che precipito a testa in giù.
Subito mi metto nella classica posizione “Superman”, braccia distese in avanti, ma non sono un super eroe e non spicco il volo.

Dopo un tratto in caduta libera plano con la pancia sulla parete che si inclina e che, rotolandomi sulla schiena, mi adagia dolcemente su un terrazzino proprio sopra il salto di roccia successivo dove, per pura fortuna, mi fermo. Neanche un attimo e faccio appena in tempo a mettermi le braccia davanti alla faccia, qui la posizione Superman funziona, che un sasso bello grosso, mosso dalle corde, mi passa sopra sfiorandomi la fronte e piallandomi gli avambracci.

Sono a tutti gli effetti incredulo.
Sdraiato sulla schiena, gli occhi fissi al cielo, ricoperto di corde, passo in breve dall’incredulità alla costernazione, poi al pianto. Poi all’incazzatura quando, muovendomi piano piano per capire se sono rotto o integro, l’occhio mi cade sul discensore: un ramo della corda è ancora infilato, e l’altro?

Alzo gli occhi e lo vedo, bello penzolante poco sotto l’albero che avevo usato come ancoraggio per la doppia. Porca di quella zoccola, col cazzo che avevo fatti i nodi sui capi, avevo immaginato di farli, e per di più la doppia l’avevo lanciata 15 metri da una parte e 35 dall’altra, metro più metro meno, probabilmente meno, con il risultato che arrivato alla fine del ramo corto, il capo della corda si era sfilato dal discensore e io dalla doppia.
Ed eccomi qui.
Proprio una bella operazione, mi faccio i complimenti. Sono però contento di essere vivo e così, piano piano, trascorsi quasi 10 minuti, inizio la verifica dei danni e provo ad alzarmi.

Sui manuali di pronto soccorso avevo letto che ad uno shock abbastanza forte, passato l’effetto dell’adrenalina che ammortizza anche il dolore, segue come reazione una situazione di rilassatezza muscolare e poi l’inizio della percezione del dolore.

Detto e fatto. Appena in piedi ecco arrivare il piacevole effetto rilassatezza post trauma. Il peso del corpo non è più sostenuto dai muscoli e percepisco chiaramente quattro piccoli crack all’altezza delle caviglie. I legamenti che vanno.
Ci manca, nell’ordine: la caduta di un meteorite, la terra che esce dalla sua orbita, uno tsunami sul torrente Mello che trascina a valle il sasso Remenno e l’opera sarebbe stata completa.

Mi ritrovo nuovamente sdraiato e questa volta ci resto.
Sopra, sul nevaio, mentre il sottoscritto tutto da solo combina il casino descritto, Lele e Robi, massaggiatori fisioterapisti improvvisati, stanno ripristinando la circolazione sanguinea di Daniele. Non chiedetemi come abbiano fatto, forse usando il martello, ma riescono anche a rilassargli i muscoli crampati dal freddo così che il nostro eroe può riprendere la discesa.

Passa un po' di tempo, io sono sempre disteso a terra sulla schiena, fermo, immobile quando i miei compagni arrivano.
Li vedo spuntare là sopra, accanto all’alberello.

Sono increduli anche loro perché non riescono immediatamente a capire cosa cacchio faccio disteso a terra avvolto in un ammasso di corde ma ho questo netto ricordo: stavano ridendo. Con discrezione.
Realizzano l’accaduto non appena vedono un capo della doppia penzolare sotto l’albero e l’altro che arriva fino al sottoscritto.
Nel casino che avevo combinato per fortuna non era andato tutto completamente storto: un capo della corda era rimasto impigliato sull’albero della doppia così che poterono raggiungermi. Almeno questo.

Intanto i pantaloni bianchi e la maglietta iniziano a tingersi di rosso.
Non potendo quasi stare in piedi ci vogliono ancora diverse ore di gioiosa sofferenza per scendere fino a valle con i miei compagni che si prodigano e alternano nell’attuazione di vari metodi di autosoccorso di cordata, dal trasporto a spalla alla calata del ferito per finire con la tecnica dell’uomo stampella.

L’arrivo in Val di Mello è un fatto epico.
Neanche Michael Cimino nel “Il Cacciatore” era riuscito a portare a così alti livelli di lirismo un momento dove eroismo e commozione si combinavano in modo perfetto come nella nostra entrata in Valle. Solamente Sylvester Stallone, uno dei più delicati e sensibili attori conosciuti, ci riuscirà interpretando John Rambo in Rambo 1,2,3 e 4.

Ciak, si gira: Calma pomeridiana, caldo, silenzio, aria ferma.
In lontananza si vedono quattro uomini uscire dal bosco.

Il sole alle loro spalle sfuoca la visione e il calore rende tremula l’immagine ma si intuisce chiaramente che uno di loro è sorretto dai compagni e mano a mano che avanzano si vede il rosso del sole andare a confondersi con il rosso vermiglio che risalta sul bianco dei suoi calzoni.

Procedono faticosamente e lentamente si avvicinano al sentiero di fondo valle dove alcune persone che stanno camminando, accorgendosi del loro arrivo, si fermano e si mettono ad osservare attoniti la scena. Scambiandosi sguardi incuriositi bisbigliano tra loro “guarda tè sti quattro pirla, ma da dove cacchio vengono? boh, si saranno persi”.

Poi i quattro arrivano al sentiero. Incuranti degli sguardi dei presenti lo attraversano e continuano verso il torrente con sguardo alto, fiero, avanti e cich e ciach, i piedi nell’acqua e poi ancora avanti fino a immergersi ah!!, sollievo, finalmente quello in mezzo può iniziare a staccare maglietta e pantaloni appiccicati dal sangue sulla pelle.

Poi non ricordo molto altro. Il ritorno, l’arrivo a casa a notte fonda senza farsi sentire dai genitori che dormono, le operazioni di pulizia e disinfezione e poi il letto e la febbre alta per diversi giorni, la tintura di iodio applicata con il pennello a cui seguirono svariate operazioni di scrostamento e un po' di tempo per riprendere la funzionalità delle caviglie.

Lele Dinoia fece la stessa salita il giorno dopo e gentilmente mi fece recapitare la mia corda che trovò incastrata nel canalone. Anche lui come noi sbagliò l’inizio della discesa, ma essendo stato molto più veloce, in salita, non ebbe problemi di oscurità. Che fortuna!
Qualche anno dopo vidi al cinema “Un tranquillo weekend di paura”. A poco a poco affiorarono piacevoli ricordi. Grazie a Lele, Robi e Daniele per la bella gita.

P.S.:

Per molto tempo, fino a quando decisi di mettere per iscritto questa storia, restai sempre convinto che uno dei motivi per cui Daniele sopravvisse a quella notte bagnata e congelata fosse dovuto al fatto che sotto la sua tuta arancione da meccanico indossasse, ad insaputa dei suoi compagni, una maglia di lana, quelle mitiche da militare.
Quelle maglie erano veramente portentose, ne bastava una ed era come indossare due pile Patagonia. Sulla pelle procuravano un pizzicorio tale da produrre, come reazione fisica, un aumento della circolazione sanguinea periferica in grado di proteggere l’organismo fino a 10° sottozero.

Prima di mettermi a scrivere volli perciò verificare questo mio convincimento e glielo chiesi. Daniele mi confermò che sotto la tuta arancione NON portava nulla.
Restai basito.
Mi confidò poi che quella notte passata bagnato e congelato su un sasso in mezzo al nevaio fu l’unica volta in tutta la sua vita che pensò seriamente che sarebbe morto, e di vicende alpinisticamente intense, diciamo così, so che ne ha vissute diverse altre.

Forse ora potrei anche chiedergli quali furono i suoi pensieri quando, sempre quella notte, realizzò che i suoi tre fidati compari non sarebbero scesi subito e coraggiosamente avrebbero atteso la mattina.
Forse anche no!

Quelle che seguono sono le uniche foto rimaste di quella vicende, ritraggono un Lele sfuocato e il sottoscritto sulla sommità del Precipizio degli Asteroidi e sempre il sottoscritto in posizione eretta senza l'aiuto dei compagni poco prima dell'arrivo in Val di Mello.