La sostenibile leggerezza dell'arrampicare - Chapter 4 - The Ossola tales - Prima parte

THE OSSOLA TALES

 

CHAPTER 4.0

IL GIORNO DELLE TESTE DI RAME

Sono almeno due ore che sto arrampicando sul tiro. Il quinto.
Ho risalito la fessura nera strapiombante che Antonio aveva scalato due settimane prima, raggiunto la rassicurante sosta ottenuta collegando tre chiodi lost arrows piantati dal basso verso l’alto in una lama e iniziato quello che sarà un lungo traverso diagonale a destra.

Poco dopo la sosta, in leggera discesa, aggiro uno spigolo netto formato da un grande lama armonica che mi immette su una placca verticale. Come se mi fossi chiuso una porta alle spalle, non appena doppiato lo spigolo mi ritrovo isolato da tutto, da solo su quella placca sospesa sopra uno strapiombo mentre guardo la mia corda che orizzontale torna e scompare dietro lo spigolo e il cordino di servizio che da dietro l’imbrago penzola libero nel vuoto.
Prima di aggirare lo spigolo avevo piantato un chiodo nella lama armonica, passato lo spigolo ne avevo piantato un altro che aveva fatto muovere il primo e così ero ritornato per riposizionare i due chiodi in modo che non si muovessero da soli. Rassicurante.

La placca è compatta, non chiodabile ma arrampicabile. Proseguo il traverso e non vedendo subito un possibile punto di arrivo uso il sistema di fare un paio di passi e poi ritornare per essere sicuro di non chiudermi una possibile ritirata. Mi sento in forma, se riesco a scaricare bene sui piedi posso stare delle ore anche su piccoli appoggi. Arrampico sei o sette metri in traverso orizzontale quando un paio di metri sopra la mia testa compare l’inizio di un diedro fessurato.
La salvezza!

Raggiungere il diedro si rivela però più difficile del previsto. Provo una volta, due, tre e ancora, mi alzo di un metro ma mi manca altrettanto per raggiungere la fessura.
Faccio due movimenti per poi ogni volta ritornare sugli appoggi di partenza come se questi fossero la riva rassicurante a cui torniamo rapidamente non appena ci accorgiamo di non toccare più il fondo.

Ogni tanto butto un occhio al materiale che ho appeso all’imbrago. Ho tutto il necessario.
Stoppers, friends, qualche chiodo, un kit con vari cliff già montati, un paio di copperhead e il fido pianta spit con la testa già avvitata.
Dopo 20 minuti (è ciò che mi dice il mio orologio interno) che sono in quella situazione realizzo che devo tirarmene fuori assolutamente.

Non ho alternative, penso al perforatore pianta spit e provo a vedere se riesco a utilizzarlo ma capisco subito che è impossibile. Tento tutte le posizioni possibili ma non riesco a stare solo sui piedi tenendo perforatore in una mano e martello nell’altra, ho bisogno comunque di un appiglio a cui tenermi per non cadere e oltretutto per fare un foro dovrei mantenere quella posizione almeno per 15 minuti, ad essere ottimisti.

Abbandono l’idea dello spit e torno ad osservare la roccia circostante.

Mano a mano che stai su un passaggio aumenta la tua confidenza con il mondo di roccia che ti circonda e gli occhi iniziano a rivelarti particolari inediti, nuovi appigli che fino a pochi attimi prima ti erano sfuggiti ed ecco, finalmente ti sembra di aver in mano la soluzione, riprovi, dai che è fatta. Così pensi.

La nuova soluzione mi fa arrivare con la punta delle dita a pochi centimetri dalla fessura ma non riuscirei a piantarci un chiodo, la posizione è troppo aleatoria.
Niente da fare, non riesco proprio, non mi fido ad azzardare il passaggio.

Continuo a fare tentativi, ritornando ogni volta sugli appoggi di partenza, con lo sguardo sempre rivolto alla corda che passa nell’ultimo chiodo armonico, poi gira lo spigolo, altro chiodo armonico, poi qualche metro sempre in orizzontale e passa nella sosta intermedia fatta con i tre chiodi lost arrow piantati in una lama dal basso verso l’alto, poi continua in traverso e poi giù infilata in vari friends e stoppers fino ad Antonio in sosta. Almeno lui sta comodo.

I telefonini che fanno foto ancora non esistono, neanche quelli che non fanno foto, le fotocamere digitali ancora da venire, le macchine fotografiche hanno la pellicola e oltre alle combinazioni tra tempi e diaframmi non puoi andare. Non c’è l’opzione “panoramica” che è invece la fotografia che potrei scattare se cadessi in quella situazione.
I due chiodi armonici salterebbero all’istante, la sosta, se resistesse, è comunque ad una dozzina di metri e il film del pendolo che vedo è veramente troppo lungo.

A questo punto torna prepotente la necessità di uscire da quello stallo al più presto. La clessidra del tempo l’ho già girata più volte ed ogni volta mi sembra che sia più veloce.

Ho un flash, adesso, che a distanza di tantissimi anni fa emergere netta la sensazione che allora, in quella situazione, l’opzione “torna indietro”, azione che sicuramente sarei riuscito a fare, non venne mai presa in considerazione, neanche come ultima possibilità. Mi sembra strano ma il ricordo è così, va bè, torniamo al punto.

Sono sempre lì, isolato nei miei tre metri quadri di roccia con il tempo esterno che va velocemente mentre quello interno si è fermato, come me, ed è proprio questa dimensione temporale rallentata e dilatata che inizia a generare un effetto molto particolare.

Cominci a vedere cose che prima, quando ancora eri un umano, ti erano sfuggite. I pensieri si fanno strani e inizi a percepirti su piani differenti.
Uno sei tu lì sulla roccia, nei casini, e poi c’è un altro che è come se fluttuasse sospeso nell’aria attorno a tè, che ti gira intorno osservandoti.
Ogni tanto volti lo sguardo come se ti accorgessi di una presenza alle tue spalle ma sei sempre tu, l’altro che ti guarda, e vede che stai sganciando dall’imbrago il moschettone con il kit da sopravvivenza.

Qualche istante prima i miei occhi si erano focalizzati su una piccola piega della roccia poco sopra la testa che fino a quel momento non avevo notato.

L’altro sta leggendo il tuo pensiero: quella piccola onda verticale ha una cresta abbastanza spessa e forma un incavo dove potrei mettere un copperhead, un piccolo cilindro di rame del diametro di 7/8 millimetri nel quale è annegato un cavetto d’acciaio che serve per appendersi.

Lo si appoggia sulla roccia martellandolo fino a che il rame, materia morbida, si modella sulle irregolarità della roccia, materia dura, e resta attaccato, lui, il copperhead.
Poi vi appendete voi.

L’altro ti osserva mentre sfili il copperhead dal moschettone e provi a verificare con leggeri colpi di martello fino a che sembra aderire bene alla roccia.
Ok, sta su da solo. Inizi a martellarlo facendo attenzione a non colpire il bordo di roccia e vai avanti fino a quando pare ben incollato alla roccia. Attacchi un rinvio e provi a tirare un poco: tiene.
Bene, ora l’ultima verifica. Colleghi una staffa all’imbrago per non perderla e la agganci al cavetto del copperhead.

L’altro continua ad osservarti mentre riprendi i due appigli che usavi e stringi le dita più che puoi, infili un piede nel gradino della staffa, inizi a sollevarti lentamente trattenendo il respiro mentre allenti la presa sugli appigli, con le mani sempre pronte a stringere nuovamente, fino a staccarle per un attimo dalla roccia e mandare tutto il tuo peso sul copperhead.

Tiene. Ottimo.
Torni con i piedi sulla roccia e respiri.

E’ l’altro che sembra dettare le regole e dopo quello che ha visto è convinto, si può provare.
E tu torni in azione.

Prepari un chiodo angolare da infilare nella fessura appena la raggiungerai e con un lungo cordino lo colleghi all’imbragatura. Porti il martello davanti all’imbrago e metti il chiodo nella tasca anteriore della felpa.

Azione: urli ad Antonio di stare all’occhio che stai appendendoti ad un copperhead.

Mentre gli occhi restano fissi sulla corda che scompare dietro allo spigolo, fai tre respiri e prendi fiato per prepararti all’apnea. Inizi a sollevarti sui gradini della staffa inizialmente con le mani sugli appigli, poi li abbandoni e arrivi a mettere un piede sul penultimo gradino, ti allunghi al massimo e con le dita arrivi alla fessura, ci infili velocemente il chiodo che avevi preparato e subito gli tiri quattro martellate violente.
A quel punto ti accasci appeso al cordino che avevi agganciato al chiodo ed esci dall’apnea. In quel momento torni ad essere solo, l’altro scompare.

Sono euforico, pianto un altro chiodo e poi scalo il diedro.
Dopo una decina di metri lo abbandono e rimonto a sinistra verso una zona abbattuta che mi sembra buona per sostare. Fine del tiro. Sono sfinito e ho una sete pazzesca.

Appena preparata la sosta chiedo ad Antonio di agganciare al cordino di servizio lo zainetto con l’acqua poi, non appena ripresomi, lo richiamo per dirgli che inizio a recuperare le corde e di prepararsi per salire.

La risposta che ricevo è netta, No! non salgo!

E’incazzato nero e da lì non si muoverà. Mi urla che ho iniziato a scalare alle 2 e sono le 6 passate e si è rotto i cosiddetti.
Porca putrella, 4 ore e passa! Come è possibile.

Nel mondo parallelo in cui ero stato mi sembrava fosse passata non più di 1 ora.

Il tempo aveva rallentato fin quasi a fermarsi ma il ritorno nella realtà aveva riportato le lancette al posto giusto.

Non c’è verso di convincere Antonio.
La scena ha indubbiamente il suo lato comico: quello sopra che urla di salire e sotto l’altro che risponde urlando di no, tutte e due legati e immobilizzati alle rispettive soste. Ci mandiamo a fanculo urlandocelo reciprocamente più volte ma siamo entrambi in stallo.
E’ la prima volta che ci capita di avere un piccolo diverbio in parete. Alla fine scendo, non ci sono alternative.
Dal giorno del copperhead, con una lunga fuga diagonale, in tre giornate intense scalammo 10 tiri molto vari ed alcuni veramente spettacolari con una soddisfazione esagerata per quello che eravamo riusciti a fare e non ultimo per una maledetta…

 

CHAPTER 4.1

… Questione di Principio

Lottammo testardamente per una questione di principio che non digerii mai veramente, per molti anni, anche se provai a dimenticarmene cercando di considerarla nient’altro che una pippa mentale.

Una questione di principio è sempre una cosa seria, ecchecazzo! soprattutto quando riguarda aspetti fondamentali della vita come questi.

Gondo e la Sentinella, Loro, Noi e il Fattaccio.

Gondo e la Sentinella:
1984. L’anno prima.
Quando una sezione ridotta dei 4 dell’Apocalisse, (cioè 3 su 4, Lele, Daniele ed io) con l’aggiunta di Antonio lascia il campeggio La Sorgente in Val Veny sotto l’acqua, passa da Milano a scaricare le macchine dall’inverosimile che ci si portava per quel mese di campeggio e giunge in quel ridente e solare paesino di Gondo per andare a fare la via di Paleari “Rondini sanguinarie”, in quel preciso momento storico sulla parete della Sentinella, 280 metri di dislivello per 250 metri di larghezza per un totale di circa 70.000 metri quadrati di granito ci sono solo tre vie, il che semplicemente vuol dire una marea di granito vergine a disposizione.
Approfittando di quella favorevole condizione la versione aggiornata dei 4 con l’aiuto dei fratelli Bernardino e Andrea portò a termine una gloriosa campagna che tra Sentinella, Parete Nascosta e falesia sommitale significò sei nuove vie e mezzo.

Loro:
le vie esistenti sulla Sentinella erano state aperte da un gruppo di guide alpine della zona. Oltre alla qualifica professionale li potremmo definire “locals”. Erano un po’ di anni che comunque l’attività esplorativa risultava dormiente.

Noi:
Per andare a scalare a Gondo dovevamo proprio averne una gran voglia perché arrivati in frontiera si rischiava ogni volta una bella rottura di coglioni.

Nell’arco di un chilometro si dovevano passare tre controlli, Polizia Italiana prima, Dogana Italiana 200 metri dopo per finire in bellezza con quei simpaticoni dei finanzieri svizzeri a Gondo.
Eravamo tutti degli scalatori di città, milanesi di nascita tranne Antonio, quindi forestieri per cui degni d’attenzione ma venire considerati stranieri dagli Ossolani, peraltro lì stranieri pure loro perché la Sentinella è in Svizzera, seppur fastidioso ci avrebbe importato un beato piffero se non fosse successo un fatto gravissimo.

Il Fattaccio:
Loro si erano auto estesi la giurisdizione anche oltre confine e per quel diritto divino che autorizza i locals a tenere sotto controllo il territorio non gli era certo sfuggito che un gruppetto di milanesi stava facendo scorribande sulle loro pareti.

Un comportamento quanto mai scortese! E da sanzionare!
Decidono quindi di dare una bella dimostrazione ai foresti per ristabilire l’ordine delle cose.

Risalgono le nostre corde fisse, non erano corde statiche ma solo vecchie corde d’arrampicata, quindi elastiche, arrivano fino al punto dove sono ancorate, la famigerata sosta con tre chiodi piantati dal basso verso l’alto in una lama e da lì proseguono diritti per un diedro strapiombante e finiscono la via passando tra i tetti terminali. Praticamente quasi tutto in arrampicata artificiale, A1 e A2, come confermerà la relazione che uscirà in seguito.

All’oscuro di tutto ciò torniamo dopo una pausa di tre settimane per proseguire la via e con le jumar risaliamo le nostre corde.
L’ultimo tratto di risalita collega direttamente le soste senza rinvii intermedi ed è tutto nel vuoto.
Mancano pochi metri per arrivare alla famigerata sosta su tre chiodi rovesci, sono appeso sotto una sporgenza della roccia quando mi trovo davanti agli occhi la corda con la calza quasi del tutto tagliata e l’anima in bella vista. Mizzeca che sorpresina.

Controllando con l’apnea un attacco di tachicardia e terrore sposto con estrema circospezione le jumar sopra lo sbrego, arrivo in sosta e lì ho l’altra bella sorpresa.
Nel diedro strapiombante che prosegue diritto sopra la sosta vedo infissi una lunga serie di chiodi. Un gran bel tiro in artificiale che porta ai tetti e agli strapiombi della parte finale della parete.
Il primo e unico pensiero che mi viene è che qualche pirla ha risalito le nostre fisse e proseguito la via.

Sono incazzato nero, uno perché ho rischiato la pelle risalendo una corda quasi segata e due perché porca zoccola son cose che non si fanno! Punto e basta.
In quel momento tutti gli aggettivi utili a definire la così brava ed educata personcina che ci ha fatto questa cortesia vengono urlati a squarciagola. Eravamo entrambi giovani e abbastanza calati nella parte dei veri scalatori da risultare incazzosi e poco inclini a subire torti, veri o presunti e questo ci sembrava proprio un torto vero.

 

CHAPTER 4.2

L’inossidabile Team in Fuga
La Risposta…

…non si fa attendere, anzi è immediata.
Assicuro Antonio che mi raggiunge in sosta e decidiamo il da farsi. Non sappiamo ancora chi possa essere stato a fare questo bel lavoretto anche se qualche sospetto l’abbiamo, locals? e sappiamo che è gente comunque forte.
La risposta dovrà esserlo altrettanto.

Hanno tirato fuori una via in artificiale? bene da quel punto Noi troveremo la soluzione per scalare la seconda metà della parete totalmente in libera. Alla facciaccia loro. Ed è così che nasce Fuga Diagonale. Con solamente tre isolati passaggi in artificiale arrivammo sui prati sommitali scalando sempre in libera.

Non può comunque finire così, vogliamo capire chi è stato a compiere il delitto e prenderci la soddisfazione di insultarlo direttamente! L’indagine prosegue.
Conoscevamo i nomi delle guide locals soprattutto di quelle che avevano fatto le vie sulla Sentinella e il cerchio si chiudeva su tre nomi al massimo.

Recupero i loro numeri telefonici e li contatto.
Senza dire subito chi sono veramente faccio qualche domanda per raccogliere info sulle vie della parete e butto l’esca chiedendo delucidazioni su alcune corde fisse ben evidenti dal basso nel settore destro della Sentinella.

Ignari di essere oggetto di una indagine segreta i responsabili ingenuamente cadono nel tranello raccontandomi anche i dettagli della via che hanno fatto proseguendo il nostro progetto. Ringrazio per le informazioni e chiudo la telefonata.

Lascio passare qualche giorno e richiamo il soggetto questa volta presentandomi e mandandolo subito a cagare con tutti gli annessi e connessi del caso.

Coglioni, provinciali, con tutta la roccia che c’è per quale cazzo di motivo avete dovuto andar lì per forza, lo so bene perché etc etc.

Gli racconto anche che ho rischiato la vita risalendo una corda fissa quasi tranciata ma su questo punto mi risponde che loro non le hanno usate, hanno scalato la via.
Ci posso anche credere, è ragionevole, l’avrei fatto anch’io.

Sarebbe effettivamente da stupidi attaccarsi a corde fisse di non si sa chi e non si sa dove attaccate ma comunque gli ribadisco che non me ne frega una beata fava se hanno o non hanno usato le nostre fisse, gli ripeto che sono degli stronzi e che hanno fatto una cazzata.

La telefonata si chiude senza i rituali cordiali saluti. Fine. Siamo soddisfatti.
Mi resta un solo dubbio: se non hanno usato la nostra corda come faceva ad essere quasi tagliata?

Qualche tempo dopo incappando in una seconda situazione identica capirò il perché. La terza situazione imparammo come non farla più capitare.

All’epoca non avevamo a disposizione tutorial che spiegassero come posizionare le corde fisse e non conoscevamo nessun californiano abituè del Capitan che potesse tenerci un corso pratico di big wall. Inoltre Antonio ed io per predisposizione personale siamo sempre stati degli autodidatti integralisti.

Avevamo bisogno di trovare noi la soluzione per cui, con attenzione e prudenza, provavamo e sperimentavamo in proprio le soluzioni tecniche che ci servivano.
Il succo è questo: se dovete lasciare per un lungo periodo una corda che poi avete intenzione di risalire e questa passa su uno spigolo di roccia, un bordo di un tetto o comunque una roccia sporgente, è bene, anzi molto bene, per prima cosa usare una corda statica poi rinviare la corda sopra e appena sotto il punto critico e metterla in tensione in modo che il vento non la sposti e nelle Gole di Gondo il vento c’è, eccome se c’è.

Alla fine quindi era stato il vento a provocare i danni alle corde e non gli scalatori ossolani.

Poi il tempo passa ed il fatto quasi dimenticato.

 

 

CHAPTER 4.3

L’Inossidabile Team in “Fuga Diagonale”

Con Fuga Diagonale ci sentimmo proiettati a pieno titolo nella Wall of Fame degli scalatori e il giorno che raggiungemmo i prati terminali fummo premiati anche con il premio “Porcino d’oro”.

Avevamo scoperto che c’era un modo per arrivare sui boschi sommitali della Sentinella percorrendo una strada consortile che dal paesino di Bugliaga portava a Bugliaga di Dentro, quattro baite abbandonate, tranne una, proprio sul confine italo svizzero, e poi seguendo il sentiero dei contrabbandieri.

Facemmo così per arrivare sulla cima e calarci all’ultima sosta raggiunta.

Era fine settembre quando scalammo l’ultimo tiro ed arrivammo nel bosco sommitale.
Mentre stavamo ricomponendo gli zaini Antonio notò casualmente qualche macchia marrone tra l’erba del sottobosco.

Era una esplosione di funghi! Ovunque ci giravamo vedevamo funghi spuntare e non erano allucinazioni ma porcini. Mollammo tutto il materiale, svuotammo gli zaini e iniziammo a riempirli.

Dopo gli zaini fu la volta dei sacchetti gialli dell’Esselunga, c’era già nel 1985, e poi i K-Way usati come sacchetti. Raccogliemmo più di 100 porcini che riempirono l’intero bagagliaio della Peugeot di Antonio e rischiammo anche di fare uscire il soccorso alpino che dopo il soccorso ci avrebbe portato direttamente dai carabinieri.
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erminata la raccolta compulsiva dei funghi stavamo tornando a Bugliaga di Dentro con il nostro prezioso carico quando Antonio, che stava camminando dietro di me in un tratto esposto e poco evidente del sentiero dei contrabbandieri che definirlo sentiero era fargli un complimento, con zaino in spalla ed entrambe le mani occupate a tenere i sacchetti pieni di funghi inciampa, perde l’equilibrio e cade all’indietro.

Mi giro e lo vedo tre metri più in basso con la schiena tra due sassi ma con i sacchetti esselunga pieni di funghi ancora ben stretti in mano. Piuttosto si sarebbe ammazzato ma i porcini mai li avrebbe lasciati andare!
Le conseguenze del volo sono per fortuna solo una bella slogatura alla caviglia che però ci consente di rientrare senza grandi problemi e qualche fungo ammaccato.

Con Antonio mi legai la prima volta quando andammo alla Sentinella e aprimmo la nostra prima via “Il Rompighiaccio”.

Avevamo molti amici climber in comune ma non c’era ancora stata l’occasione di legarci in cordata.
Da quella volta ci trovammo, non so ancora per quali strane combinazioni, e formammo una cordata che navigando tra le vicende delle proprie vite continua da allora.

Un Inossidabile Team.

Penso che la comunanza di intenti si basò in prima battuta perché fummo entrambi stregati da quell’ambiente. Cose che succedono!
Ci innamorammo di Gondo, il suo spirito, il vento, le sue pareti, i boschi, Bugliaga, la natura wild che ancora si trovava e soprattutto perché in giro non si incontrava mai nessuno, salvo i doganieri svizzeri con i loro simpaticissimi cani lupo.

Erano dei posti dove stavamo un gran bene, ci eravamo creati il nostro giardino dei giochi riservato e appena riuscivamo ci tornavamo sapendo che sarebbe stato sempre bello e così trovammo un feeling reciproco che ha sempre funzionato.
I motivi non ce li siamo mai domandati, difficile farlo, ma siamo sempre riusciti ad avere un equilibrio che non si è mai incrinato ed ha funzionato non solo relativamente allo scalare.

Antonio, nonostante la vita e gli impegni, aveva già una sua azienda che lo occupava parecchio, era testardo e duro come l’acciaio che lavorava la sua ditta e non ha mai perso un colpo.
Quando decidevamo qualcosa da fare, cascasse il mondo ma lui alle 4 della mattina era sotto casa a prendermi e tutte le volte cercava di fare il record casa-Milano-Gondo e spesso il vero record lo facevamo al ritorno quando riuscivamo a ritornare a casa dopo esserci fermati alla Cantina di Varzo a mangiare e soprattutto bere, alla grande.

Riuscì a superare anche il periodo della berretta di lana a luglio che portava per difendersi da forti emicranee.

Anche con tre Optalidon a stomaco vuoto in corpo era lì, a legarsi la corda all’imbrago. Alcune volte finì in modo divertente ma sempre bene e devo ringraziare i suoi Optalidon se un giorno feci una corsa da solo sulla Cresta Kufner al Mont Maudit, dal bivacco della Fourche in vetta del Maudit e ritorno al rifugio Torino in meno di 4 ore, uno dei miei rari ma fantastici viaggi nel tempo.

 

CHAPTER 4.4

ICOSS

1993. 10 anni dopo l’avventura di Fuga Diagonale Antonio ed io scarichiamo gli zaini dal bagagliaio della macchina parcheggiata sul terrapieno tra i due tornanti della strada per il Sempione.
Ci fotografiamo a vicenda, finalmente stiamo facendo il grande salto.

Dopo attente osservazioni e studi approfonditi ci lanciamo ad aprire una nuova via sulla Pala di Gondo, la parete che con i suoi 500 metri verticali ed alla fine molto strapiombanti incombe proprio sui due tornanti della pista che da Gondo porta al passo del Sempione.

Il progetto è quello di salire proprio in mezzo alla parete, poco a destra della classica, la via di Paleari e Rossi. Per noi è una vera big wall e diventerà un bellissimo viaggio che durerà due anni e che oggi non mi riesce di raccontare in maniera diversa da come lo feci con gli articoli che generarono da quella esperienza.

Nel 1986 scrissi un articolo per la “Rivista del Club Alpino Italiano”, numero di marzo-aprile, che riguardava i primi anni della attività a Gondo.

10 anni dopo, nel 1995, mi fu gentilmente riservato un intero numero della allora famosissima rivista molto ma molto di nicchia “Parraviciniamoci”, un foglio interno alla Scuola Parravicini, per un resoconto della attività a Gondo compreso l’apertura della via Icoss sulla Pala di Gondo.
Il titolo era “Gondo Enterprise” e nel rispetto dello stile del foglio fu battuta a macchina, composta, fotocopiata e pinzata a mano su carta A4 Mondo Office.

Passano altri 10 anni e nel 2006 la Rivista bimestrale del CAI nel numero di gennaio e febbraio ospita ancora un mio articolo su Gondo in occasione della apertura di ulteriori tre tiri e della richiodatura della via.

Rileggendoli a distanza di quasi 30, 20 e 10 anni sono contento di ritrovarmici sempre.

Scrissi l’articolo dell’86 con un’anima che potrei definire abbastanza in linea con quanto vi veniva normalmente pubblicato in tema di arrampicata e alpinismo mentre nel 2006 sempre la Rivista del CAI, che oggi si chiama “Montagne360°” e viene inviata a tutti i soci ordinari, mi concesse ancora l’onore di contribuirvi riservandomi ben 7 paginoni centrali e pubblicò quello che penso sia stato il primo, unico e ultimo articolo ospitato sulle sue pagine assolutamente non in linea con la seriosità, pesantezza e déjà vu di quasi tutto quello che da sempre compariva sulle sue pagine.

Quando portai personalmente l’articolo in redazione nutrivo seri dubbi che uno scritto di quel genere venisse passato e invece andò tutto bene e di questo devo ringraziare l’allora redattore Alessandro Giorgetta che mi stupì per l’apertura che dimostrò.

Poi cambiano le persone e cambiano i tempi che non sempre vanno avanti. Solo 3 anni dopo, mica poi così lontano, il Sodalizio decentralizza la redazione della Rivista ad una società dal nome che è tutto un programma “Cervelli in Azione”.
In quel periodo, insieme a Giulio avevamo finito da poco l’apertura di una nuova via sulla parete Est del Picco Meridionale del Cameraccio, Space Trukin’. Scrivo una storia sempre con il mio stile leggero e scanzonato e ad aprile del 2009 lo invio al responsabile della redazione.


La storia si intitola “E’ solo rockn’roll caro Cameraccio”. Ci sentiamo qualche volta per discutere dell’impaginazione e delle foto e ricevo la conferma che con il secondo numero del 2010 verrà pubblicata.
Non vedendolo pubblicato chiedo lumi.

Mi rimbalzano per tutto il 2010 fino ai primi mesi del 2011 dicendomi: non preoccuparti, è solo questione di impaginazione e scaletta degli argomenti, uscirà sul prossimo numero.
Ad agosto 2011 mi rompo le scatole e invio una mail alla redazione scrivendo di comprendere perfettamente che lo scritto non è allineato con la filosofia della Rivista ma che sarebbe stato sufficiente e cortese dirmelo subito. Si dice assenso consenso? Non ricevetti più alcuna comunicazione. The time are changing.

Quello che ripropongo di seguito, nella seconda parte del capitolo, è l’articolo del 2006, quello pubblicato, trascritto per filo e per segno, con errori e punteggiatura originali.