La sostenibile leggerezza dell'arrampicare - Chapter 5 - L'allegra combriccola

L’ ALLEGRA COMBRICCOLA

Chapter 5.0

Le Combinazioni Possibili

(combinazione a quattro)

Le abbiamo provate tutte, quasi tutte.

All’epoca dei fatti che racconterò, quando in piena fase esplosiva scorrazzavamo su buona parte dell’arco alpino creando un discreto scompiglio, non c’eravamo proprio resi conto che, fra tutte le combinazioni e alternanze possibili che escogitavamo per comporre le cordate tra di noi, ne esisteva solamente una che funzionava sempre.

Solamente molti anni dopo, analizzando per caso le performances realizzate, mi risultò assolutamente evidente che funzionavamo egregiamente solo quando ci muovevamo in due e gli altri due restavano a casa e questa, per fortuna, era una situazione che, per questioni famigliari o per impegni con la ragazza, per un esame all’università o la cresima di un nipote, avveniva con una discreta frequenza.

Nel malaugurato caso che fossimo andati a scalare tutti e quattro insieme, casualmente divisi in due cordate, portavamo a casa la salita, cioè riuscivamo a farla senza combinare troppi guai, se e solo se le mete scelte dalle due cordate si trovavano in settori diversi dell’arco alpino del tipo: una cordata andava in Piemonte in Valle dell’Orco e l’altra alla Tofana di Rozes nelle Dolomiti. Comunque sufficientemente distanziati con un minimo 5/600 chilometri, in modo che le combinazioni astrali delle buone stelle di ognuno di noi non si congiungessero provocando di sicuro qualche casino.

Se ci fossimo accorti allora che, agendo così, il risultato sarebbe stato garantito, avremmo immediatamente sciolto il gruppo ricreandone un altro tipo “i 2 +2 dell’ave maria” così che l’avremmo messo in quel posto al destino, sempre molto attento alle combinazioni ed avremmo avuto una carriera molto più esaltante!

Ma tant’è, ci tenevamo a cercare di andare ad arrampicare insieme, come ci piaceva passare insieme i pomeriggi a scalare ai giardini di porta Venezia, perché agli amici piace fare così e solo un altro tipo di combinazione ha fatto sì che a distanza di 40 anni siamo tutti belli pimpanti e in forma: capacità, preparazione e fortuna. Combinazione che tradotta in percentuale fa 20+20+60.

 

Chapter 5.1

Destini Incrociati

Avete in mente film o libri, normalmente nel genere del crime, thriller, dove c’è una lunga parte inziale che racconta lo svolgersi di situazioni apparentemente senza legame tra loro… fino ad un certo punto… dove le vicende si intersecano, i personaggi iniziano ad interagire, si rivelano e si inizia a capire che uno dei protagonisti delle storie descritte non è proprio una brava personcina?

 

Chapter 5.2

La Tela del Ragno

Il Messico è un paese senza una grande storia alpinistica alle spalle e senza molti di posti per scalare, penso, non ci sono mai stato, ma, avendo come vicini di confine la California che invece di climbers e pareti ne ha da vendere, qualche effetto l’ha sicuramente subito e ha sempre avuto dei buoni alpinisti e arrampicatori.
Bene.
Ci sono tre alpinisti messicani abbastanza forti ed abituati a girare le montagne di mezzo mondo che una estate di un anno dei primi ’80 decidono di passare una settimana di vacanza arrampicatoria a Chamonix, Mont Blanc, “La capitale dell’alpinismo mondiale” come recita l’enorme cartellone pubblicitario all’ingresso della cittadina appena si esce dal traforo del Monte Bianco giusto per ricordarci che sono francesi.
E’ la prima volta che vengono sul Monte Bianco e siccome sono bravini e sperano in una settimana di bel tempo, tra le salite che hanno programmato c’è la Bonatti-Ghigo sulla parete Est del Grand Capucin. Niente male come programma. Cioè, questi vengono dal Messico per fare la Bonatti al Capucin!

Dall’altra parte dello spartiacque, in Italia, nel campeggio “La sorgente” in Val Veny c’è un prato al limitare dei pendii che salgono ai contrafforti della Aiguille Noire du Peuterey, nascosto alla vista degli altri campeggiatori da due grossi massi per questione di privacy e salvaguardia della decenza per gli altri campeggiatori, che viene riservato oramai da diversi anni alla Scuola Parravicini.
Da fine luglio a fine agosto, con permanenze più o meno lunghe, generalmente decisamente lunghe, vi soggiornano istruttori della Parravicini, amici, famigliari, fidanzate, amanti e allievi freschi freschi dei corsi primaverili. Un andirivieni di gente con almeno una decina di tende sempre montate. Un ambiente pittoresco, divertente, stimolante. Era un appuntamento importante il campeggio estivo al Bianco e fino all’83/84 fu sempre molto frequentato.

Poi le cose cambiano. Ma torniamo a noi.
Quell’estate tra le tende stanziali c’è la Bertoni a casetta, due camere con veranda, con il sottoscritto e Lele, la tenda di Robi e quella di Daniele, tutti con rispettive fidanzate. Quindi, i 4 dell’apocalisse al completo ed in forma smagliante.

Se fate poi 2+2 avrete anche già capito cosa avevamo in programma di tentare.
E’ una bellissima mattina, il sole è già esploso sul Grand Capucin e lambisce la fine del canale di neve, alla base della parete, che conduce alla stretta cengia dove inizia la via Bonatti. Lì ci stiamo preparando per iniziare la scalata. Ci sono altre tre cordate oltre a noi, una davanti e due che stanno arrivando alla cengia.
Iniziamo a scalare. Dopo tre o quattro tiri ci rendiamo conto che all’andatura a cui stavamo andando ci avremmo fatto tre bivacchi sulla via e probabilmente sulle staffe. Non era mica colpa nostra, noi correvamo sui tiri, solo che poi tutto si arrestava per aspettare che la cordata a tre davanti a noi, lentissima, liberasse la sosta. Così non si poteva andare avanti e quindi, dopo attenta valutazione della situazione, decidiamo il sorpasso.
Per inciso, noi eravamo scalatori educati e rispettosi e quelli che sorpassavano ci stavano francamente sulle palle ma quella situazione purtroppo non aveva soluzione se non così. Dovevamo però superarli in quattro e non è una cosa facile, no è che puoi obbligare una cordata a stare ferma mentre tu passi, saluti e vai.

A questo punto entriamo in modalità attacco e attiviamo la famosa progressione TPRR.
Io e Robi partiamo da primi delle rispettive cordate e rimontiamo la cengia su cui è in sosta la cordata che ci precedeva ed è lì che i messicani fanno la nostra conoscenza, le storie si intersecano e i destini si incrociano.

Visto che l’inglese non lo padroneggiavo proprio, con quattro parole in italiano veloce e poco comprensibile gli spiego che andiamo un po' più avanti per trovare una sosta più comoda. Sono messicani, parlano spagnolo, avranno capito sicuramente! Grazie, prego! Mi fiondo sulla fessura che parte dalla sosta dei messicani e dopo un paio di metri in libera ed un paio di chiodi in artificiale, ne pianto uno anch’io, salgo sulle staffe guardo la fessura sopra di me e mi accorgo che hanno tolto qualche chiodo! Porca paletta!!
In quegli anni purtroppo ci fu una moda, per fortuna seguita da pochissimi, soprattutto fortissimi, di schiodare le vie in base al loro Elevato, Giusto ed Insindacabile giudizio. Questo chiodo lo tolgo, via anche questo, quest’altro pure e così poteva capitare che ti trovassi su una via dove un paio di giorni prima era passato un simile personaggio. Una così brava personcina che entra anche lei nella tua storia ma che per sua fortuna non incroci fisicamente perché, se fosse successo, l’unico pensiero che ti sarebbe frullato in testa è che prima gli avresti polverizzato le rotule a martellate e poi iniziato una pacifica discussione sul metodo. Di fracassargliele!

A questo punto, sufficientemente alterato, inzio a provare dei passi in artificiale del tipo piede sull’ultimo gradino della staffa con l’altro piede incrociato davanti, mica chiacchere, fiffi nel chiodo che veniva tirato come se stessi scalando un diedro in dulfer, due dita incastrate nella fessurina e in massimo allungo con il moschettone in mano per tentare di raggiungere il chiodo successivo. Procedo di un chiodo poi a quello dopo non ci arrivo. Vedo a destra una grossa fessura e via con il pendolo, rinvio nella fessura, faccio un metro poi la trova intasata di ghiaccio, via altro pendolino e riprendo la linea originale. Così facendo, nel giro di qualche minuto, una volta destra ed una a sinistra, sotto gli occhi esterrefatti dei tre messicani e di Roberto, che per non incrociare i loro occhi increduli fa finta di niente riordinando i moschettoni sull’imbrago, creo una ragnatela di corde inestricabile e insuperabile.

Il fermo immagine di quell’istante è una fotografia che mi accompagnerà nitidamente per sempre e, realmente immortalato in una diapositiva, verrà inserita in un audiovisivo, negli anni ’80 si chiamava così una proiezione di diapositive sincronizzate con musica e commento parlato, dal titolo “Storia ed evoluzione dell’alpinismo” che utilizzavamo nei corsi di alpinismo e arrampicata della Parravicini per dare un po' di gas agli allievi. Quando sullo schermo passava quella diapositiva gli spettatori restavano un attimo perplessi, iniziavano a girare la testa come per raddrizzarla, poi arrivava la diapositiva successiva e dicevano, boh, strano!
Poi i chiodi si allontanano sempre più. Ovvio che avevamo un po' di materiale assortito, ma ovvio che non era sufficiente per richiodare la Bonatti al Capucin e quindi, scena 2, si gira!

Andrea Grand Capucin


Chapter 5.3

Stallo alla Messicana

Avete presente la mitica scena del film di Tarantino “Le iene” dove tutti i protagonisti si tengono reciprocamente sotto tiro con le loro pistole e la situazione è in stallo? Poi ad uno di loro parte un colpo e tutti iniziano a spararsi e nessuno ne esce indenne? Ecco, non proprio così ma rende l’idea di ciò che avvenne.

Quindi, cazzarola…con rammarico decido di scendere e sotto gli occhi dei sempre più esterrefatti messicani, facendo ulteriore casino per liberare la ragnatela di corde dalle due fessure parallele raggiungo Robi che era rimasto insieme ai messicani. Per toglierci il più presto possibile da quella situazione imbarazzante, come si dice in gergo, lanciammo le doppie e, raggiunti Lele e Daniele che si erano goduti tutta la scena da spettatori, ci eclissammo.

Quel giorno, a cascata, tutte le cordate che erano sulla via furono coinvolte dalla nostra decisione e lo stallo magicamente si dissolse: tornarono tutte a casa.
Dato che eravamo veloci anche a calarci in corda doppia, prendemmo tutti di sorpresa, li superammo in discesa e raggiungemmo per primi la cengia dove avevamo lasciato scarponi, picche e ramponi, ci sdraiammo al sole e finalmente Robi potè estrarre dal suo zaino il famoso Tapperware rettangolare.

Dovete sapere che Robi si era fatto fare direttamente in Tapperware un contenitore delle dimensioni esatte del fondo del suo zaino Lowe e quando cambiava zaino gliene procuravano un altro modificato ma non sapete cosa usciva da quel contenitore: un miracolo di cibo di ogni genere.
A questo punto, tutte le cordate ci passarono davanti, li salutammo cordialmente dando ovviamente nomi e indirizzi falsi, poi per ultimi, lenti, arrivò la cordata dei messicani. Avevano degli zaini immensi, forse in tre o quattro giorni ce l’avrebbero fatta ma tant’è, eccoli qui davanti a noi che restano ancor più esterrefatti quando Robi gli offre delle acciughe piccanti, cavolo, volete farvi mancare le acciughe piccanti sulla Bonatti al Capucin? Bè, per i due messicani quelle acciughe piccanti furono la pace dei sensi ed un sorriso… erano venuti dal Messico.


Poco dopo un candelotto di ghiaccio che manca di poco il Tapperware di Robi appoggiato sulla cengia ci sveglia dal torpore del caldo sole di mezzogiorno e rilassati, con calma, scendiamo il canale nevoso e riprendiamo la traccia per il rifugio Torino e il ritorno al campeggio dove finalmente ci aspettano almeno un paio di giorni a fare boulder sui massi attorno alle tende, sperando ovviamente nel beau fix sur les alpes!
Sul ghiacciaio incrociamo nuovamente i messicani: stavano montando una tendina per passare la notte e, sono convinto, riprovare il giorno dopo con la quasi assoluta certezza di fare la Bonatti se non ci avessero incontrato nuovamente.

Robi Lele cengia Grand Cap 

Chapter 5.4

Combinazioni a tre

L’unica combinazione con tre del gruppo che funzionava era quando c’erano come minimo altri due partecipanti esterni, in pratica una comitiva in cordata, in modo che gli effetti negativi si disperdevano tra tutti e si mitigavano.
Nessuno di noi quattro poteva definirsi un arrampicatore curricolare, c’erano certamente le salite cosiddette di riferimento ma penso che ciascuno di noi seguisse dei misteriosi piani personali nel scegliere cosa andare a fare e poi c’era pur sempre un aspetto di relazioni da coltivare. Quando succedeva che gli obbiettivi coincidessero allora il gruppo si ricompattava e solo impegni improcrastinabili facevano sì che ci si muovesse in tre o in due.
Oltre all’impegno improcrastinabile poteva esserci lo scoglio che portare Robi a scalare su granito o il sottoscritto in dolomiti era veramente un’impresa ardua e spesso di scarso successo.

Questa volta capita che è Lele ad avere un impegno mentre Robi è libero, con l’aggravante che si fa convincere ad andare a scalare su granito! Andiamo al Pizzo Badile, parete Nord-Est, via Cassin, superclassica.
Saliamo nel pomeriggio al rifugio Sass Fourà, breve sosta, quattro chiacchere con la gentile gestore del rifugio sulle condizioni della parete. Il meteo svizzero dà buono per qualche giorno, le informazioni che recuperiamo sulla via sono normali. Nulla sembra fuori posto così proseguiamo ed andiamo a bivaccare nelle vicinanze dell’attacco della via. Il Tapperware di Robi ovviamente compare anche quella sera e ci arrotoliamo felici nei nostri sacchi.

Avvicinarsi all’attacco della via e bivaccare all’aperto adagiandosi su una calda pietra di granito addormentandosi con impresso negli occhi un tramonto rosso mozzafiato, dopo aver usufruito del contenuto del Tapper di Robi, è una cosa fantastica, molto romantica ma in molti casi assolutamente inutile.
Perché lo si fa? Ci sono gli approcci integralisti da giovane età, piuttosto che dormire in rifugio … eccetera eccetera, poi l’aspetto economico che non va sottovalutato, le due cose insieme, ma sotto sotto lo si fa per cercare di anticipare sul tempo tutte le cordate che hanno in programma la stessa salita e che da sfigati hanno dormito in rifugio.
Purtroppo il risultato di una simile iniziativa molto spesso non rispondeva alle aspettative. Per quanto mi riguardava: sempre! Per funzionare era necessario che tutti i membri della cordata fossero dei navy seal e tra di noi, a parte Daniele che impiegava dai due ai tre minuti per passare dalla modalità sonno all’imbrago indossato, Robi ed in particolare il sottoscritto eravamo decisamente più flemmatici così che, la scena che si svolgeva all’alba era più o meno questa: tutti quelli che avevano dormito in rifugio, svegliati dal gestore a gruppi suddivisi per salita da fare, colazione pronta come pure il bollitore dell’acqua per la borraccia, ti passavano di fianco con le frontali accese salutandoti con un sorrisino di compiacimento mentre tu aspettavi un minimo raggio di sole che portasse la temperature da -2° a –1° per uscire dal saccoapelo. Così il tuo piano andava farsi benedire e non ti restava che metterti in coda col rischio di dover rinunciare per sovraffollamento. Oggi è difficile ma nei fantastici ’80 sulle salite superclassiche nei giorni giusti si trovava il mondo.
Quindi, sapendo che mai ce l’avrei fatta ad uscire dal sacco all’ora giusta, perché continuavo a farlo? Semplicemente perché innegabilmente ogni volta era uno spettacolo struggente e affascinante.

Quella volta, forse per via del giorno infrasettimanale di luglio, non incontrammo nessuno al rifugio ed in giro. Eravamo soli e non c’era nessuno da superare. Quindi, avremmo potuto anche dormire in rifugio. Poi scoprimmo che una cordata con la nostra meta era in giro.

Alla mattina presto iniziammo la scalata e più o meno verso la quarta lunghezza di corda incrociammo la cordata che non avevamo incontrato il giorno prima. Scendevano facendo brevi corde doppie! Sono due scalatori tedeschi, hanno una corda rotta ed uno dei due è ferito al volto ed ha il caschetto rotto. Ci riferiscono di una scarica di sassi che li ha colpiti, cioè, evidente, non è che pensassimo che avessero litigato per chi doveva scalare da primo. Comunque non hanno bisogno di aiuto così proseguiamo come se niente fosse. D’altra parte, mica si può pensare che su una parete come la NE del Badile ogni tanto non rotoli qualche sasso! Basta non farsi trovare sulla traiettoria di caduta.

 

Chapter 5.5

Segnali di Fumo

Dopo la grotta che nelle relazioni è segnata come il primo bivacco Cassin, circa alla decima lunghezza di corda, un traverso un po' troppo allungato ci porta qualche metro fuori via. Io e Daniele siamo in sosta e Robi, da primo e su granito, parte per riportare la cordata sulla via giusta.
Ha scalato una decina di metri dalla sosta quando un odore acre di zolfo pervade l’aria e un pennacchio di fumo compare sulla sommità della parete. Il Badile che brucia? Pochi secondi e si sente un rumore simile a quello prodotto dalle pale di un elicottero, cacchio, già i pompieri (battutaccia) ed un missile ci passa una cinquantina di metri sopra le teste e si schianta con un boato sul ghiacciaio sottostante aprendo una voragine nera.
Robi si mummifica all’istante ed io e Daniele ci guardiamo ammutoliti. Cosa cacchio volevamo fare, urlare sassoooo?
La parete NE del Badile non è una parete verticale, penso abbia una pendenza media tra i 70 egli 80 gradi. Un sasso non cade nel vuoto come sulle Nord delle Cime di Lavaredo centrando l’ignaro escursionista sul sentiero alla base ma rotola e rimbalza su tutta la parete. E’ per questo motivo che non ci fanno base-jumping, con la tuta alare però quasi quasi…
Due ore prima ci stavamo srotolando dai sacchiapelo, in quel preciso istante entriamo all’inferno ed il tempo si rallenta.
Il rumore che sentiamo è come quello delle pale di un elicottero, rallentato, ovattato, fino a quando si trasforma in sibilo e, non più al rallentatore, vediamo passarci sopra dei blocchi enormi: quando cade un sasso in montagna e questo è veramente grosso come un frigorifero, l’aggettivo enorme è più che appropriato!
Quattro, cinque rimbalzi lungo i 900 metri e passa di parete fino a schiantarsi sul ghiacciaio 300 metri sotto di noi e ad ogni rimbalzo l’impatto produceva detriti che scendevano lungo la parete come un torrente e ci investivano, per fortuna erano briciole. Io e Daniele eravamo letteralmente sciolti. Annichiliti. Appesi ai chiodi di sosta come bambole di pezza. Robi in quel momento, con freddezza impressionante e velocità, compie una manovra geniale: si sposta di un paio di metri e si va a mettere al riparo di una piccola sporgenza: lo vediamo disteso sulla placca a mo’ di tappeto con la testa infilata sotto un tetto che sporge di 25 cm . Praticamente è al sicuro, da ridere, ma in quei momenti proprio non si riesce.
Quel giorno ed in quella situazione probabilmente non ci saremmo mai arrivati se:
- la semplice, banale, ma solo poco, e dico poco, utile informazione che un paio di settimane prima c’era stata una frana originatasi nella parte terminale della parete e che la fase di assestamento era ancora in atto, dico, se questa informazione ci fosse stata data in rifugio il giorno prima e qui stendo un pietoso velo, per come eravamo e pensavamo, il Badile quel giorno non ci avrebbe visto manco di striscio.
The show goes on and the stones roll. Non serve piangere, disperarsi, chiedere aiuto, neanche pregare, devi solo fare qualcosa per toglierti da lì rapidamente, prima che uno di quei frigoriferi decida di rimbalzare proprio nel punto della sosta. Robi si cala e ci raggiunge indenne.
Siamo alla stessa altezza ed a circa 20 metri dalla grotta del 1° bivacco Cassin. Un bel traverso esposto in piena placca, l’ideale in circostanze del genere. Dobbiamo solo arrivarci. Quando l’intervallo di tempo tra un frigorifero e il successivo inizia a dilatarsi, facendo dei calcoli probabilistici totalmente improbabili, scaliamo a razzo il traverso e ci imbuchiamo nella grotta.
Il tempo si era come fermato, era mattina quando iniziava lo spettacolo ed è pomeriggio quando siamo salvi nella grotta. Non c’è conversazione tra di noi, anche Robi riesce a stare zitto. Siamo sfiniti e per reazione ci addormentiamo tutti e tre. Ci svegliamo quando manca poco che faccia buio. Riprendiamo la discesa in corda doppia al ritmo ormai sempre più lento ma costante dei blocchi che continuano a cadere e solo mano mano che ci allontaniamo dalla traiettoria di caduta riprendiamo le funzioni vitali, una mimica facciale rilassata e con un romantico tramonto rosso fuoco ritorniamo felici a valle.

Daniele Robi Badile

Chapter 5.6

Una Sottile Linea Scura

E’ quella sulla quale si dipanano le considerazioni che si possono fare quando si entra ed esce da vicende come quella vissuta sul Badile.
Potendoci ragionare dopo, il pensiero che possiamo mettere sul tavolo le migliori carte che abbiamo ma fino a quando l’ultimo giocatore non ha visto il tavolo non sappiamo come andrà a finire, non mi concilia il sonno; decidere di lasciare parte delle probabilità di successo alla fortuna, fato, destino chiamatelo come volete senza sapere quant’è questa parte ci conduce su una sottile linea scura sulla quale è difficile muoversi.
In quella circostanza, a nostra giustificazione, venne presa una decisione basata su una informazione errata, ma in tutte le altre occasioni le informazioni corrette a disposizione per decidere se andare o no c’erano tutte.
Dell’allegra combriccola Lele e Robi poi la fecero, la Cassin, ognuno per proprio conto, io nò perché le coincidenze un senso ogni tanto possono averlo.
Qualche anno dopo, con Antonio, un torrido pomeriggio di agosto con umidità mortale torno al rifugio Sass Fourà e alle 6 della mattina dopo ci presentiamo al botteghino che stacca i biglietti per la Cassin alla N.E. Cavoli, proprio testardi!
Lo spettacolo che si presenta è delirante. C’è un caos di gente che ha bivaccato disordinatamente alla base della parete, chi in attesa di partire e chi l’aveva fatta il giorno prima ed era sceso in doppie lungo lo Spigolo Nord. Allora tra i forti iniziava ad andare di moda far così, per la gioia delle cordate normali che tranquillamente stavano salendo lo spigolo e si ritrovavano sulla testa questi rompicoglioni con le loro maledette doppie da recuperare.
Sul piccolo nevaio all’attacco la scena era veramente comica, degna delle migliori vignette di Samivel: una fila di scalatori appoggiati con la schiena alla roccia in attesa si liberasse la prima sosta, come in coda al parchimetro del supermarket.
Così senza neanche pensarci, seguendo il navigatore che ti dice “gira la prima a destra” perché diritto la strada è bloccata, abbandoniamo la Cassin ed iniziamo un po' fiaccamente lo spigolo Nord.
Un paio di tiri da 150 metri ci fanno respirare un po' di pace e tranquillità dell’alpe, anche sullo Spigolo Nord c’erano un bel numero di cordate poi, fatti circa 700 metri di dislivello, poco dopo mezzogiorno, decidiamo di fermarci, un po' di optalidon si era disperso nell’aria. Ci cerchiamo ciascuno una bella cengetta: la mia è come un piccolo terrazzino affacciato sulla parete N.E., ci manca il vasetto di gerani, uno spettacolo. Vedo chiaramente tutte le cordate in azione, la maggior parte sulla Cassin. Fino a metà via ci saranno almeno una quindicina di cordate e le soste sono superaffollate. Fa caldo, c’è un venticello lento e conciliante così ci facciamo una bella dormita. Poi, con calma, scenderemo.

Le coincidenze quali sono? Ad un certo punto una scarica di sassi bella grossa si porta via nel senso letterale del termine una sosta della Cassin con i due o tre sfortunati scalatori che vi erano assicurati, più qualche altro danno collaterale qua e là lungo la via. Poi un via vai di elicotteri del Soccorso Alpino Elvetico.

Le coincidenze sono queste: io avrei potuto trovarmi lì quel giorno se non avessi passato 40 minuti al bagno del rifugio. Mio fratello l’aveva fatta il giorno prima (la Cassin), non sapevo neanche fosse lì, comunicazioni famigliari. Era tra i campeggiatori alla base della parete.
Quindi di cosa stiamo parlando? Di culo? Certo che stiamo parlando di questo ma certo è che c’è anche un altro aspetto da considerare.

Se decidiamo di andare a scalare che so, la nord dell’Eiger, Le Jorasses come tante altre pareti, a parte non considerare le tabelle di mortalità che non è neanche facile recuperare, possiamo permetterci di pensare che quel giorno non si muoverà neanche un sassolino? Oppure che essendo bravi, veloci e di esperienza, passeremo nei punti critici al momento giusto? Come se gli orari di caduta dei sassi o delle slavine fossero precisi al secondo come gli autobus a Stoccolma? O che siamo supereroi con lo scudo galattico?

Siccome ci permettiamo eccome di fare questi ed altri pensieri, spero non l’ultimo, che ci servono per escluderci da determinate possibilità e consentirci di partire, in quel momento superiamo la linea scura e il nostro agire si confronta con valori etici, morali che rappresentano il nostro essere più profondo. Spesso questo confronto si sviluppa nel nostro subconscio ed i segnali che ci manda, se arrivano in superficie, spesso sono ignorati o non recepiti.
Le scelte che ne derivano non sono giudicabili. Sono le nostre e siamo liberi di farle, fuor di dubbio. Alcune volte forse dovremmo solo avere più attenzione nel pesare tutto quello che mettiamo nello zaino prima di chiuderlo.
Personalmente c’è solo un aspetto che mi ha sempre infastidito un pochino. Non riguarda la sfera dell’agire personale ma il ribaltamento di prospettiva che avviene nel mondo della montagna, quello pubblico. Le tragedie che in montagna ci saranno sempre in quanto il rischio zero non esiste sono molto spesso considerate come un normale tributo a questa attività, l’alpinismo, il cui carico di valenza e valori che gli viene attribuito fa considerare che il sacrificio ci può stare…. “ Ha trovato pace come gli sarebbe piaciuto”… beh, facciamoci un pensiero, un momento di riflessione su questo assunto che alla fine riguarda un gioco, per adulti e pericoloso, potrebbe avere un senso.
Meglio che abbandoni subito questa sottile linea scura perché rischio di farmi male.

 Andrea Daniele Charforon

Chapter 5.7

La Prima Invernale

Nella fase esplosiva dell’attività alpinistica dei predestinati a fulgida carriera, la cosiddetta “INVERNALE”, cioè fare con molta sofferenza ciò che si potrebbe fare allegramente d’estate, rappresenta un passaggio obbligato. Da manuale. E così fu anche per noi.
Restandoci comunque un poco di sanità mentale misurammo con attenzione l’obbiettivo: quota, temperatura, periodo, tipologia del terreno e impegno globale.
Il periodo è attorno a metà dicembre, va be! D’accordo, tecnicamente l’inverno inizia il 21 dicembre, ma non facciamo i preziosi: faceva un freddo cane. Quota non esagerata e terreno glaciale così almeno potevamo tenere i guanti doppi.
La scelta finì sul Charforon, cima di 3642m nel gruppo del Gran Paradiso. Parete Nord, via Chiara sul seracco. Un impegno concentrato nei 40/50 metri verticali del seracco che, potete crederci, all’epoca esisteva veramente e pareva bello stabile. I cambiamenti climatici erano ancora lontani dall'essere immaginati e nessuno avrebbe pensato che quasi un’intera parete glaciale con il suo bel seracco scalato la prima volta da Giancarlo Grassi e Gianni Comino sarebbe scomparsa nell’arco di una trentina d’anni. A parte il seracco il resto della salita e la discesa non erano particolarmente impegnativi.
E’ un periodo gelido ma fortunatamente senza neve per cui gli sci da scialpinismo non servono. La salita al rifugio Vittorio Emanuele, per dei milanesi, si fa in scarp del tennis, e questo è positivo.

Resta da risolvere il mio personale problema con il freddo ai piedi che mi dava sempre molto fastidio. I miei scarponi d’alta montagna Asolo modello Super Cervino anche con super ghettone e due calzettoni per me sono insufficienti ma un paio nuovo, tipo Koflach, in quel momento non posso permettermeli. Fortunosamente salta fuori una ottima ed economica soluzione: rovistando nel magazzino della Parravicini cercando non so che cosa, dai resti di una spedizione Himalayana di qualche anno prima salta fuori un paio di scarponi nuovi: scarponi doppi in cuoio con scarpetta interna imbottita di morbida pelliccia d’agnello, strepitosi.

Poi come antivento, che servirà alla grande, io e mio fratello recuperiamo le giacche Pirelli che usava nostro padre e che trenta anni prima erano in cotone impermeabilizzato. La mia è verde quella di Lele nera.

Gli scarponi si riveleranno fantastici tant’è che gli anni successivi li utilizzai per l’allenamento a secco in cantina. Li indossavo e camminavo o correvo sul posto. Ogni volta sollevavo 3 chili e mezzo di cuoio e mi procuravo una infiammazione all’inguine, ma non mi congelai le dita dei piedi come qualcun altro!
Torniamo al gioco delle combinazioni: non c’è Robi, quindi Io Lele e Daniele, combinazione a tre alla quale si aggiunge Glauco, ma, come si può notare non raggiungiamo il numero minimo di 5 per considerarci una comitiva!
In più, a nostra insaputa, e qui stà la genialità dell’operazione, Glauco metterà segretamente in atto un astuto piano che al momento giusto servirà per metterlo al sicuro da possibili guai. Lui, non noi tre!

Arriviamo a Pont Valsavaranche nel pomeriggio e saliamo al rifugio, in scarp del tennis con gli scarponi nello zaino.
Attenzione Attenzione! Quando arriviamo al rifugio Vittorio Emanuele, nel locale invernale attrezzato con stufa e legna in abbondanza, l’astuto piano si palesa: Glauco non trova gli scarponi nel suo zaino!! Li aveva dimenticati! In macchina! Provate a dimenticarvi un paio di scarponi Koflach n.44, perlomeno le dimensioni dello zaino dovrebbero destare sospetti, o no!
E’ sinceramente addolorato e si scusa. Pensiamo pure di andare a recuperarglieli ma, alla fine, con dispiacere Glauco deve rinunciare e purtroppo restare ad attenderci al caldo nel rifugio… e ops! guarda un po'...al posto degli scarponi casualmente dallo zaino salta fuori un libro quasi delle dimensioni di Alla ricerca del tempo perduto di M.Proust. Qualche anno dopo tentai di leggerlo per curiosità ma non lo finii mai per mancanza di tempo. Comunque il signor Glauco, anche lui istruttore della Parravicini, si era fatto un bel programmino.
Questo comportamento non và giudicato male, anzi, perché rientra tra i modi di salvarsi la pelle descritti nel manuale di sopravvivenza dell’alpinista. Esiste anche il manuale di sopravvivenza per l’alpinista eroico ma è per professionisti. A titolo di esempio non esaustivo ci sono:
- La storta alla caviglia autoprocuratasi durante l’avvicinamento;
- Sempre durante l’avvicinamento, l’inciampo con punta del rampone che perfora il polpaccio;
- Qualche goccia di guttalax per i postumi intestinali dell’addio al celibato del migliore amico a cui non potevate mancare;
Alla fine, il giorno dopo, a partire saremmo stati in tre, la combinazione perfetta! Come la tempesta perfetta!
Ore 21.00 fuori dal rifugio invernale misuriamo -20°, all’interno +20° grazie al vapore prodotto da un pentolone d’acqua che bolle e fa sembrare l’ambiente un bagno turco, in più metteteci un pentolino con il vin brulè e si ottiene un mix perfetto. Fuori, Glauco sega tutta la legna che riesce!
Ore 05.00 o giù di lì ci mettiamo in marcia. Subito siamo rallentati da un crostone che si sfonda e sotto la neve è polvere inconsistente. Il terreno migliora quando raggiungiamo i pendii che portano al seracco. Lì ci confrontiamo con una temperatura che resta sui 20 sottozero ed un muro di ghiaccio che sembra cemento armato e non c’erano le viti da ghiaccio di oggi che manca poco abbiano un motorino elettrico per avvitarle e svitarle. Non c’erano manco gli snarg, i primi chiodi tubolari, avevamo solo chiodi a percussione. Provate a piantarli e soprattutto ad estrarli. Fortunatamente nel trio ci sono due carroarmati e si va avanti.

Poi, la lunga sequenza degli avvenimenti è in questo preciso ordine:
1) Appena fuori dal seracco siamo investiti da una tempesta di vento
2) In vetta dobbiamo ripararci dietro ogni protuberanza possibile per riuscire a fare qualunque cosa
3) Nella discesa sulla cresta est la cordata procede in conserva distesa, Lele davanti, io in mezzo e Daniele che chiude
4) L’urlo patagonico del vento chiude ogni tipo di comunicazione tra di noi
5) Ad un certo punto, sul pendio di ghiaccio alla mia sinistra vedo passare da Daniele ad una velocità incompatibile con qualunque tipo di camminata ramponata
6) Mentre Lele prosegue ignaro io sto seriamente considerando di saltare dalla cresta sul versante opposto, esattamente come prescritto dai protocolli di sicurezza per cercare di fermare la caduta del compagno
7) Mentre osservo la cengia di roccia 5 metri sotto sulla quale andrei a schiantarmi Daniele miracolosamente si ferma da solo; era inciampato inforcando con il rampone i pantavento, azione che nel manuale di sopravvivenza dell’alpinista è però prevista solo al mattino ed esclusivamente durante l’avvicinamento;
8) Siamo cotti dal vento, in azione da più di 10 ore, molto provati ed è quasi sera;
9) Una corda doppia su fungo di ghiaccio ci adagia sui dolci pendii che conducono al rifugio;
10) Ci sleghiamo, il terreno è duro e lo consente, ed il meno distrutto, Lele, parte per avvisare Glauco e valutare la possibilità di scendere a valle per comunicare a casa che va tutto bene: i telefoni cellulari erano di là da venire;
11) Daniele riesce a: inciampare, cadere facendo un salto mortale in avanti, perdere la piccozza, non accorgersi di nulla e proseguire verso il rifugio dove giunge in seconda posizione;
12) Al terzo ed ultimo posto distaccato di oltre 20 minuti arriva il sottoscritto che per riuscire a galleggiare su un tratto di crosta infida percorre l’ultimo tratto a passo del leopardo;
13) Glauco nel frattempo ha terminato un tomo da 450 pagine;
14) Siamo sfiniti, è buio e decidiamo di scendere l’indomani mattina;
15) Siccome decidiamo di scendere l’indomani la mamma di Glauco chiama i carabinieri di Aosta;
16) A fine mattina, mentre siamo fermi ad un distributore di benzina sulla strada della Valsavaranche, vediamo passare una Fiat Campagnola dei carabinieri che sta andando a Pont per vedere se c’è una Ford Fiesta beige in giro;
17) Glauco viene a sapere da sua mamma che era stata lei ad aver chiamato i Carabinieri;
18) Aspettiamo la camionetta in discesa e gli comunichiamo che è tutto a posto.
Tutto è bene quel che finisce bene.

Quello che è certo è che tutti e quattro eravamo dotati di un potente catalizzatore capace di attrarre in extremis tutta la fortuna presente nella vicina atmosfera. Fortuna che, per fortuna, nel suo distribuirsi non rispondeva a nessuna legge statistica.
In seguito, passato quell’inverno e un’altra estate, solo un’altra occasione ci riportò insieme in formazione comitiva e pur sempre con aspetti di divertente equilibrismo sul filo della sottile linea scura le cose andarono bene. Fatta salva quell’occasione, per una forma di rispetto verso i nostri genitori, non arrampicai più in cordata con mio fratello e per le normali vicende della vita di ciascuno di noi non arrampicammo più insieme.

Non arrampicammo più insieme, è vero, ma c’è sempre stata un’altra cosa che non ha mai smesso di tenerci uniti, come in una cordata ideale, la Scuola Parravicini. Semper Fidelis, non è così che dicono i marines nei film? A parte che noi altro che marines avevamo in squadra!! Ho le lacrime agli occhi!

Il caro Glauco fu compagno di cordata di tutti noi in tante occasioni. Era il vero self made man. Si autocostruiva tutto, dalle scale di casa, al letto, alle borse per la sua BMW 1000 che era l’unico mezzo di locomozione che possedeva. Era simpaticamente lento: quando, fermo immobile da mezzora sul passaggio, educatamente lo sollecitavate, lui, con calma, si girava e sempre con aria serissima vi diceva: sono circostanziato. Grande.
Si autocostruiva tutto e con le proprie mani fece anche l’aereo superleggero biposto con cui un giorno precipitò insieme alla compagna finendo in un fiume della ridente Brianza, forse era finito contro un cavo dell’alta tensione.

 

Chapter 5.8

La tecnica di progressione in cordata in Sicurezza


L’aspetto curiosamente strano che vale la pena di indagare è rappresentato dal fatto che tutti e quattro insieme ne abbiamo combinate delle belle e poi da soli o con altri compagni Lele, Roberto e Daniele hanno proseguito sulla stessa linea vivendo esperienze decisamente forti.  Ne sono sempre usciti ben temprati nel fisico e nel morale, possiamo simpaticamente dire così, per cui, essendocela spesso cavata per il rotto della cuffia risulterebbe difficilmente comprensibile la nostra attività di Istruttori di Alpinismo e arrampicata del CAI, sarebbe meglio evitarci!

Qui entra in gioco il già ricordato aspetto con cui ogni scalatore deve fare i conti e conviverci: la capacità di creare realtà separate alle quali fare riferimento al momento opportuno, come Dr. Jekill e Mr. Hide.
In altro modo non si spiegherebbe come i quattro dell’apocalisse negli ultimi 30 anni abbiano avuto un ruolo nella storia della emerita e rinomata Scuola Nazionale d’Alta Montagna Agostino Parravicini della sezione di Milano del Club Alpino Italiano ed un ruolo non marginale, vitale si potrebbe dire, in quanto tranne lo scansafatiche di Roberto che con lungimirante e accorta strategia l’ha sempre evitato, i tre altri malcapitati, chi prima chi dopo, per puro e alto spirito di servizio, hanno partecipato ai corsi per accedere al titolo di Istruttore Nazionale di Alpinismo o Arrampicata.

Questi "Titoli", una volta acquisiti, nonostante l’iter formativo dei corsi non preveda competenze gestionali e organizzative, aprono magicamente le porte alla carriera di Direttore di una scuola di Alpinismo, che sempre di più, nel mondo delle scuole del CAI, sta assumendo la caratteristica di incarico vitalizio, non remunerato, e con l’unica opzione di poter designare un beneficiario alla successione mortis causa del soggetto.
Gli illustri precedenti predecessori, da quando sono entrato a far parte della Parravicini, dal 1979 e fino al 1986, con una normale, breve e giusta alternanza sono stati Renato M., Marco P., Gino L. e Rolando C. I tre anni previsti per il mandato sono fisiologici, soprattutto in una scuola di dimensioni medio grandi perché ci sia sempre voglia ed entusiasmo di fare. Poi i termini cambiarono e dall’86 al 2018, cioè 32 anni, tranne un mandato triennale 2014/17 ricoperto da Giulio, il sottoscritto, Daniele e Lele si sono smazzati i restanti 29 anni di direzione: la classifica è la seguente:
- Il sottoscritto e Daniele in testa con 13 anni ciascuno;
- Lele e Giulio in seconda posizione con 3 anni ciascuno.
Con grande rammarico devo constatare che con quasi assoluta certezza Daniele si sta avviando a vincere la gara in quanto agli inizi del 2018 ha ripreso per la terza volta la posizione di comando, che culo! ed i restanti pretendenti al titolo si sono immediatamente collocati in una posizione defilata.
Tornando quindi all’aspetto curiosamente strano da indagare, per essere dei buoni istruttori quali caratteristiche bisogna avere? Come ci raccontiamo tra di noi e come risulta dai diversi brain-storming fatti sull’argomento: passione, competenza, conoscenza, comunicazione, piacere ad insegnare, umiltà, pazienza e eccetera eccetera.
Perfetto, ok, passione? alla grande, pura, cristallina; capacità didattica e piacere ad insegnare? anche qui ok ci siamo.
Ma cosa insegniamo nei corsi di Alpinismo e arrampicata?
Insegniamo a muoversi in sicurezza e autonomia sui diversi terreni d’arrampicata cioè insegniamo la progressione in sicurezza della cordata quindi, in soldoni, a prepararsi e organizzarsi per uscire di casa la mattina, andare a fare una scalata e tornare a casa la sera. L’unico argomento che non affrontiamo riguarda la sicurezza durante il percorso di andata e ritorno in auto.
Per fare questo le competenze necessarie ce le si procura sul campo. Stiamo parlando di capacità, conoscenze tecniche, preparazione, consapevolezza, determinazione e così via e qui secondo voi come siamo messi?
Beh! Ragazzi, qui siamo sempre stati al top.
Senza falsa modestia ed esagerazione (emoticon con faccino sghignazzante) eravamo perfettamente in grado di insegnare ad un neofita cosa doveva fare perché sapevamo esattamente cosa NON doveva fare. La nostra esperienza su quest’ultimo punto era decisamente approfondita, a 360° e riconosciuta.
Nella versione Mr. Hide, tolta dalla canfora ed indossata la mitica giubba rossa eravamo impeccabili e professionali, quando la riponevamo nell’armadio e ci svegliavamo come Dr. Jekill restavamo sempre professionali, ci mancherebbe, ma aggiungevamo quel pizzico di imprevedibilità che rendeva assicurato il divertimento.