La sostenibile leggerezza dell'arrampicare - Chapter 6 - La leggerezza dell'arrampicare

Chapter 6.0

Due vie in una vita

Immaginate di trovarvi in un contesto di gente di montagna e, con un bicchiere in mano, state piacevolmente conversando con una persona che scoprite essere veramente appassionata di montagna, sognatrice, simpatica.
Vi raccontate delle zone che frequentate, delle montagne che amate di più, scoprite anche di avere conoscenze comuni poi così, naturalmente, la conversazione scivola su un argomento sempre molto caro agli alpinisti: le montagne e le salite che hanno fatto.

Molto strano no? Solo giusto per capire meglio la persona con cui state parlando e non rischiare di spararle grosse per poi scoprire di avere davanti una persona con un curriculum alpinistico degno di un Simone Moro.
Gli domandate cos’ha fatto ultimamente e lui vi risponde che ha salito la Desmaison/Mazeaud sulla ovest dei Grand Charmoz e la cresta dell’Innominata alla vetta del Monte Bianco. Ciumbia! Complimenti, e quando? gli chiedete. Boh! Come faccio a ricordarmi, son passati tanti anni, ho fatto solo queste due salite. Come solo? Si, qualche arrampicata qua e là, nel lecchese, in val di Mello ma in alta montagna solo quelle due. La cosa vi spiazza un poco.

Vi state correttamente domandando: non è un poco strano che una persona che in montagna a scalare va molto raramente, come vi ha appena raccontato, un giorno decida di andare ai Grand Charmoz per scalare la Desmaison? Se una volta nella vita vai nel massiccio del Monte Bianco la cresta dell’Innominata come scelta ci stà anche se come primo obbiettivo è impegnativo ma l’altra salita è quantomeno particolare, fuori dai circuiti delle classiche da non mancare.
Comunque la domanda che vi state ponendo è legittima e mentre ci state rimuginando sopra vi torna in mente un dettaglio: tra i suoi amici e comuni conoscenze di gente che va in montagna vi aveva detto che c’erano in fratelli Affaticati e conosceva Daniele Banalotti. Bingo! La risposta è servita.

Si può inoltre giustamente immaginare che questa persona, non vivendo di pane e montagna e vie pianificate, non avesse fatto della preparazione fisica la sua religione. Corretto, era esattamente così. In conseguenza di ciò il suo essere in forma capitava in modo assolutamente casuale. Alla forza e alla tenenza che certo non erano il suo forte sopperiva con la tenacia e i nervi che nelle due salite della sua vita furono risorse alle quali dovette attingere a piene mani.

Era sconclusionato e in quegli anni anche squattrinato ma quell’estate riuscì ad essere tra i numerosi campeggiatori presenti nell’area Parravicini al campeggio in Val Veny, ospite in una delle stanze della tenda a casetta dei fratelli Affaticati e c’era anche Daniele.

La scelta di andare ai Charmoz seguì un percorso logico che all’epoca rifletteva un po' le nostre fantasie e proiezioni nel mondo degli scalatori. Bella parete alta il giusto, 800 metri, solido granito, pochissimo frequentata, tutta da attrezzare, difficoltà perfetta, V° e VI°, ottima esposizione, ovest, ideale per bivaccare e referenze degli apritori di assoluto livello; unica concessione al plaisir la discesa in doppie lungo la via Cordier. Va bè, ci poteva stare.

Il programma prevedeva di iniziare la salita nel primo pomeriggio, bivaccare dopo 400 metri sulla grande cengia mediana che attraversa tutta la parete, il giorno dopo arrivare in vetta in tarda mattinata e poi scendere in doppia. Quindi avremmo arrampicato con lo zaino in spalla portandoci dietro scarponi, picca e materiale da bivacco, ma questo proprio non era un problema, nelle gare di trazioni si facevano tranquillamente le 100 in serie da 10 al minuto.

Giorgio, ecco svelato il nome della persona appassionata, sognatrice e saltuariamenteallenata, è della partita, in cordata con me. Nell’altra cordata Lele con Daniele. Quindi il sottoscritto con i due carroarmati più Giorgio fa 3+1, una combinazione ad alto coefficiente di rischio.
Sarebbe stato sorprendente se in quei due giorni di sole spettacolare su un granito fantastico i percorsi astrali delle nostre stelle non si congiungessero come al solito, e infatti così successe: i flussi negativi si liberarono nell’aria avvolgendo la parete Ovest dei Charmoz e coinvolgendo chi si trovava sulla parete. Quella volta il risvolto per noi si risolse con una visione che riportò nell’aria la pace dei sensi ed una notte bellissima, per un’altra cordata che affiancammo nella discesa in doppie lungo la via Cordier purtroppo non fu così.

Tornando a noi, oltre al piacere personale di introdurre nel racconto la figura dell’amico Giorgio, è importante la sua presenza perché mi sostiene nella testimonianza che le vicende sin qui raccontate non sono del genere fantasy ed i personaggi non sono elfi con poteri soprannaturali, un paio però quasi quasi.

 

Chapter 6.1

La Visione

Chi fa parte del gruppo oltre al sottoscritto e Giorgio? Lele e Daniele! Macchine da scalata con software stoicoeroico preinstallato e non disatttivabile.
Su tutto il versante francese del Monte Bianco il beau fix sur les alpes è veramente fix. Condizioni meteo raramente ottenibili: caldo, ventilato, umidità perfetta per cui neanche le nuvole tardo pomeridiane, fino alla Bretagna non c’è una nuvola. Però cacchio se fa caldo.

Iniziamo verso le tre del pomeriggio ed alle otto di sera giungiamo sulle terrazze mediane della parete. Ci sistemiamo in un bello spiazzo con vecchio muretto di sassi ancora in piedi, stendiamo il materassino, il sacco da bivacco leggero in cotone e ci predisponiamo alla cena.
L’acqua però è finita! Certo, scalare sotto il sole che alle otto di sera è ancora lì sopra l’orizzonte ha i suoi pro e suoi contro ma eravamo sicuri che sul vasto sistema di cengie mediane avremmo trovato un po' di neve da sciogliere ed eravamo contenti perché la vedevamo chiaramente una cinquantina di metri sopra di noi, al termine dei gradoni quasi alla partenza del salto finale della parete.
Nella soffusa luce crepuscolare si vedeva una bella zona bianca e quindi Daniele prende due sacchetti del supermarket e, mentre predisponiamo il fornello e le cibarie, risale il sistema di gradoni per arrivare alla neve.

Il sacchetto dell’Esselunga era un accessorio sempre presente nei nostri zaini. Prima di partire per il campo estivo la spesa all’Esselunga era un avvenimento importante. Si riempiva il bagagliaio dell’auto con provviste che dovevano durare 20 giorni almeno. Fare la spesa nell’unico mini market o nei negozi di Courmayeur avrebbe voluto dire tornare a casa dopo una settimana. In quella occasone si faceva incetta di sacchetti di plastica, non biodegradabili, che tra i diversi usi funzionavano bene anche come ghette per scarpette d’arrampicata.

Dopo poco Daniele ritorna con i sacchetti vuoti. Arrivato al bianco aveva scoperto che non era neve! cazzarola! ma una gigantesca vena di quarzo che attraversava buona parte della parete. Non ci possiamo credere! Qualcuno ci vuole male!

Il panico inizia a serpeggiare in due dei presenti che già si immaginano una notte difficile con la gola secca, la tosse senza riuscire manco a godersi quelle 4 o 5 sigarette che erano la dose minima per un bivacco e peggio l’indomani, con la sezione più impegnativa della via ancora da scalare e tutta la discesa con gli occhi fissi al ghiacciaio sottostante e la lingua penzoloni.
La disidratazione mentale inizia subito a produrre i suoi effetti. Ci sdraiamo nei sacchi e silenziosi iniziamo l’agonia, io e Giorgio. Gli altri due manco una piega, tranquilli, iniziano ad elaborare tutte le possibili soluzioni.

La Guida Vallot, 3 etti di carta che non mancavano mai nello zaino, riportava che il sistema di cengie dove ci trovavamo tagliava tutta la parete dei Charmoz, attraversava dei canali passando sotto il Grepon per arrivare al ghiacciaio tra quest’ultimo e la Aig. De la Blaitiere.
Rappresentava una possibile via di fuga da tante situazioni critiche, e la nostra era molto critica, ma la fuga non faceva parte dei nostri piani. Più precisamente dei loro piani. Nel massiccio del Monte Bianco, a 3200 metri che era circa la nostra quota, la neve da qualche parte l’avrebbero trovata, a costo di arrivare fino in un bar di Chamonix! Questo è quello che stavano pensando e di conseguenza, quasi all’alba delle nove Daniele, con in tasca pila frontale e sacchetti del supermarket parte per la missione “bring water”.
In agosto alle 10 di sera sul versante francese del Bianco c’è ancora una flebile luminescenza nel cielo. Il sole tramonta lontano sulla linea bassa dell’orizzonte e la luce scompare lentamente lasciando solo un attimo di buio prima che si accendano le stelle. Sul versante italiano alle quattro del pomeriggio il sole è già passato dietro la cresta spartiacque, c’è l’ombra e alle nove il buio.

In caso di bivacco ci sono gli estimatori di entrambi i versanti. Su quello francese prolunghi il giorno più a lungo, ti porti il caldo nel sacco fino all’ultimo momento e ti svegli freddo all’alba senza sole, che arriverà dopo un po'.
Sul versante Italiano alle ore 20.00 sei già arrotolato nel sacco e barbelli dal freddo fino a quando lo spettacolo dell’alba va in scena e ti commuovi e poi piangi perché quella palla rossa impiegherà comunque il suo tempo a riscaldare l’aria.
Dato che in entrambi i casi ti svegli al freddo e tutte le operazioni preparatorie le fai al freddo, preferisco il bivacco in versione francese, lato ovest della montagna, per godermi lo spettacolo il più a lungo possibile.

Passate da poco le 22.00 Daniele è via oramai da più di un’ora e siamo un poco in allerta, tra pochi istanti si dovranno accendere le frontali e tutto diventerà più difficile ma i tre rimasti ad attendere scopriranno di lì a poco che non ce ne sarà bisogno perché all’improvviso, negli ultimi istanti di chiarore, intravvedono un profilo muoversi lontano sulla cengia. Una strana sagoma con due grossi rigonfiamenti ai lati.
E’ ancora distante, i dettagli del volto non sono distinguibili ma i tre sanno bene chi è e cosa sta portando: due sacchetti del supermercato stracolmi di neve, almeno 10 chili l’uno. Missione compiuta. Squadra in sicurezza.
Il sole bacia sempre in fronte gli eroi e così siamo tutti salvi, felici, facciamo partire subito il fornello e sbocconcellando qualcosa ci ritroviamo sospesi tra due celi stellati, il cielo di sopra con le stelle vere, compreso le nostre, e quello di sotto con le luci di Chamonix. Nel mezzo, indelebile nella mia memoria resterà l’immagine di quello strano profilo che usciva dal buio sulla cengia e la riconoscenza per ciò che aveva fatto.

bivacco G Charmoz

Chapter 6.2

L’Anno del Merlot

Attorno all’85 L’inossidabile Team era ormai una realtà e Robi lasciava l’arrampicata dedicandosi corpo e anima allo sci da discesa. Lele e Daniele proseguivano come panzer la loro attività e da quel momento ci ritrovammo a scalare insieme una sola volta, nei primi anni ’90 e sapete dove andammo? Al Badile, ma tiè! alla Cassin, peraltro Lele e Robi l’avevano già scalata, andammo al Pilastro a Goccia sulla parete N.O.
In formazione 3+2, con il supporto di Franco e Adelio, quindi in comitiva, il risultato fu più che onorevole: escludendo il bivacco in discesa sullo Spigolo Nord a causa di un temporale serale più leggera nevicata, che, faccio presente, rappresenta sempre un plus che porta notevole valore aggiunto all’impresa, andò tutto bene.
Con Robi invece più avanti mi ritrovai ma fu tutta un’altra storia. Nel frattempo arriva l’86 e, mentre faticosamente mi arrampicavo sui vetri per terminare gli esami di Economia, feci l’intervallo del militare nella terra del Merlot.

Nel 1986 c’era ancora il muro di Berlino, Gorbaciov aveva fatto partire la Glasnost ma c’erano ancora gli ultimi bagliori della guerra fredda e al di là dei confini verso Est ci stavano ancora i comunisti cattivi pronti ad invaderci. Per questo in Friuli esisteva una fitta rete di caserme “operative” dove i militari italiani erano sempre pronti, perfettamente addestrati e con attrezzatura e armamenti all’avanguardia per contrastare il potenziale pericolo.

Per chi come il sottoscritto si divertiva a scorrazzare con il cingolato che gli avevano assegnato, con la dotazione completa di 8 fucilieri ed un mitragliere, distruggendo sistematicamente la fauna ittica ed i delicati ecosistemi dei greti dei fiumi Torre e Natisone, il pericolo era veramente tangibile e fu percepito chiaramente nei mesi di giugno e luglio di quell’anno.

In quei mesi nelle mense delle caserme comparvero in abbondanza condimenti ai funghi e verdure di ogni tipo. Ad aprile era esploso un reattore nella centrale nucleare di Chernobyl, in U.R.S.S, e verdure e funghi si trovavano a buon mercato.

Probabilmente per gli effetti combinati della verdura e dei miei trascorsi montagnini, anche durante il periodo che passai in mimetica ebbi degli attacchi di sana e divertente follia, d’altra parte un anno senza inventarsi qualcosa di pericoloso da fare sarebbe stato difficile da trascorrere. Così, un giorno, al Comandante della compagnia, un Capitano, più giovane di me, a cui avevano estirpato tutti i neuroni e che se ne andava in giro con una BMW dipinta con la vernice verde che usavano per ritoccare i carri armati, feci una proposta che sapevo non avrebbe rifiutato.
Gli proposi, per migliorare la preparazione dei fucilieri, di fargli fare delle esercitazioni con la discesa in corda doppia. La proposta fu accolta calorosamente per cui chiesi all’allora direttore della Parravicini la possibilità di avere un po' di corde. Detto, fatto. Mi presentai in caserma con il bagagliaio dell’auto pieno di vecchi spezzoni di corde prese dal magazzino della scuola ed organizzai lo show.

Due compagnie di fucilieri al completo. Un centinaio di ragazzini 18enni, fatti arrivare in quella caserma del Friuli dai luoghi più scomodi e distanti del paese, sufficientemente incazzati per le continue ed inutili guardie che gli facevano fare, che mai si sarebbero immaginati di venir radunati nella palestra della caserma, in mimetica, zaino, per fortuna senza fucile, di fronte al sottoscritto che, sorridente, a fianco del Capitano, gli spiegò quello che avrebbero fatto da lì a poco.
Capii in fretta dalle espressioni nei volti di quei poveri ragazzi che dopo avrei dovuto assumere delle guardie del corpo.
Dovevano prima risalire a piacimento una pertica od una corda per arrivare in cima ad un trabattello alla cui estremità c’era predisposta la corda per la discesa in doppia che eseguivano nella versione Emilio Comici. La cosa fu nel suo insieme tragicomica, ad un certo punto si organizzarono carrucole per sollevare i malcapitati fino in cima alla pertica, poi non vi dico le discese.

Quella fu l’occasione in cui si consolidò l’amicizia con un ragazzo di Parma, Umberto, che come me passava i suoi pomeriggi a lucidare i cingoli del carro.
Aveva un fisico esplosivo, statuario, faceva il quarterback nella squadra dì football americano di Parma. Lo iniziai all’arrampicata e con lui passai sereno un anno di militare: ogni tentativo di mettere in pratica un atto di nonnismo nei miei confronti, con lui presente, abortiva sul nascere.
Uscivamo di caserma ed andavamo in macchina al Natisone a fare boulder sui massi nel greto del torrente, quando era in secca, arrivandoci generalmente dopo 4 o 5 frizzantini. Facemmo qualche puntata in falesia e ci massacravamo di pesi in una palestra di culturisti old-style a Udine. Finimmo il periodo di leva a marzo e restammo in contatto, con l’intesa che lo avrei portato prima o poi a fare una scalata vera e propria.

 

Chapter 6.3

A Volte Ritornano

Dopo l’anno a militare passai qualche stagione arrampicatoria in Val di Mello, ad esplorare le placche sopra L’Oasi che avevo chiamato Specchi della Meridiana. Trascorsero fortunatamente indenni e con Maurizio, Giorgio, Ester, Antonio e Bernardino aprimmo diverse nuove vie.
Il fuoco sacro dell’alpinismo aveva oramai finito di provocare vampate ed ero quasi fuori dal tunnel ma qualche residuo di bruciatura restava attaccato alla pelle; non potevo pensare così, impudentemente, che la mia nuova vita scalatoria non risentisse in qualche modo del vissuto. Il risultato fu che in quel periodo riuscii a mettere in atto un paio iniziative invernali, restando però basso di quota, in Grignetta, riguardo alle quali, ricostruendo a distanza i passaggi preparatori e poi ciò che avvenne, stento a credere di essere stato io a ideare delle cazzate simili. Purtroppo sì,sono stato io, ma, dato che le ho fatte da solo, senza testimoni quindi non ci credereste, e mi resta ancora un poco di amor proprio, non le racconto.
Non ero quindi ancora ben stabilizzato quando nel mese di luglio dell’87 chiamo Umberto proponendogli la scalata vera e propria con cui c’eravamo salutati il giorno del congedo.

Dove gli proposi di andare? In Dolomiti. Appunto, pensate la follia. Il sottoscritto che programma una scalata ad oriente. La protezione civile era stata allertata.
Non dimenticate che però, in fondo, sapevo come comportarmi. Conoscevo bene con chi sarei andato e quindi tarai ad hoc l’obbiettivo.

Per prima cosa coinvolgo l’altro membro dell’Inossidabile Team. Antonio era già stato molte più volte di me ad arrampicare in Dolomiti, una garanzia sotto questo aspetto. Mi consiglia la Torre Venezia, nel gruppo del Civetta, dandomi la certezza che ha una roccia più che solida, non è tanto alta e l’Andrich-Faè una via ideale per chi non è mai stato in montagna a scalare ma gioca come quarter back.
Lo chiamo. Ciao Umberto, ti va di venire con me e Antonio a fare la via Andrich alla Torre Venezia? Mi risponde sì, ok, va bene, ma cos’è? Non preoccuparti, tranquillo.
Ci diamo appuntamento sulla MI-VE, io da Milano, lui da Parma e Antonio da Udine dove si trovava per lavoro. Saliamo alla sera al rifugio Vazzoler e la mattina dopo ci incamminiamo verso l’attacco. Tutto sotto controllo…tranne un particolare.

 Umberto e Andrea

Chapter 6.4

I racconti dell’Optalidon

Per Antonio, quelli furono gli anni della berretta di lana anche in agosto a Milano. Una emicrania quasi costante lo perseguitava. Tutti abbiamo problemi da risolvere ed in quel periodo aveva i suoi, tra lavoro e vicende personali. Lo conoscevo abbastanza e sapevo anche che era uno che non mollava mai, con i pro e i contro che questa tenacia aveva in situazioni diverse. Sapevo anche che, per lui, andare a scalare era importante per cui, con ben chiare le implicanze del caso ero sempre sereno. Andava come andava, andava sempre bene!
Al rifugio Vazzoler, alla mattina, Antonio ha un mal di testa potente. Non so quante pasticche avesse già preso. Mi rendo conto del dramma e comunque decidiamo di andare all’attacco della via, magari quattro passi gli faranno bene.

Per Umberto è tutto Ok, tanto non sapeva bene cosa stesse facendo.
All’attacco la situazione non è migliorata. Decidiamo di fermarci un’oretta per vedere se l’Optalidon produce i suoi effetti e l’emicrania diminuisce e poi decideremo il da farsi. Conoscete quali sono gli effetti collaterali dell’Optalidon preso in dosi equine? Un attimo e lo scoprirete.
Ovviamente non molla di un centimetro e dopo un’ora conferma di essere pronto, operativo! Ho i miei dubbi ma Ok, iniziamo a scalare, poi vedremo. In testa alla cordata vado io e Umberto e Antonio da secondi, al momento non ci sono alternative.
Il quarto tiro è quello che porta alla grande cengia mediana dove arrivo, predispongo la sosta e comunico ai due compagni di venire. L’optalidon sta lavorando subdolamente.

Umberto sale come un missile, è veramente incredibile, mi raggiunge alla sosta come se avesse fatto una corsetta di riscaldamento. Poi riprendo a recuperare Antonio. Inizia a salire, poi a poco a poco rallenta fino a che l’optalidon completa i suoi effetti: la corda di Antonio si ferma. Ne su, né giù.

10 minuti, continuo a chiamarlo, nessuna reazione. 15, 20 minuti. Tutto è fermo. Prendo la corda di Umberto e mi carrucolo fino al bordo della cengia, continuo a chiamarlo urlando, è sotto una ventina di metri ma non lo vedo, la corda sparisce in una rientranza e non si muove. Mi preoccupo ed inizio ad organizzarmi per raggiungerlo quando, come nei film, sento il rumore del rotore di un elicottero che improvvisamente compare alla mia altezza ad una trentina di metri di distanza. E’bello, giallo e rosso, con un tipo in piedi sul pattino che mi fa dei segnali. E’il Soccorso Alpino, ma chi l’ha chiamato?
Era successo che due escursionisti, di passaggio sul sentiero sottostante la parete, avevano assistito alla scena di uno che urlava in continuazione ed un altro fermo immobile da oltre mezzora, a metà di un tiro, incastrato in un anfratto della roccia, che non dava alcun segnale. Giustamente preoccupati, i gentili escursionisti erano corsi al rifugio ed avevano dato l’allarme.
L’Optalidon aveva letteralmente steso Antonio.

A metà del tiro, all’altezza di una nicchia abbastanza grande, si era fermato per riposare un secondo ed era crollato in catalessi. Poi, probabilmente per il rumore dell’elicottero o perché in quel momento terminava l’effetto della droga, Antonio si sveglia, dall’elicottero lo vedono muoversi, segnaliamo che non siamo in pericolo, il soccorso rientra e Antonio ci raggiunge in sosta. Con ancora a disposizione Il resto di una giornata bella e calda, proseguiamo e arriviamo in vetta al crepuscolo. Discesa in corda doppia al buio ma va bene così.
L’Optalidon di Antonio, come recitava il bugiardino, aveva effetti collaterali sia per il soggetto che l’assumeva sia per chi era in quel momento in stretta correlazione con lui, ed essere legati in cordata rappresentava una stretta correlazione. La percezione dell’ambiente circostante si modificava e le azioni conseguenti risultavano alterate, positivamente.

Poi certo che ci si risvegliava, si riprendevano le normali funzioni e restavano piacevoli sensazioni.
Come quel giorno sullo spigolo Nord del Badile.

Nel momento in cui decidemmo di fermarci e ci organizzammo per la siesta, un po' di Optalidon si era disperso nell’aria. Dormire e rilassarsi in quella circostanza, sospesi nell’aria, con un leggero venticello caldo senza neanche la copertina quel giorno per me fu perfetto e penso anche per Antonio. Non sono più tornato sullo Spigolo, non ne ho più avuto la necessità.

Restano piacevoli sensazioni e brividi.
Quando nel tardo pomeriggio entriamo al Bivacco Alberico Borgna al colle della Fourche dove origina la cresta Est del Mont Maudit, massiccio del Monte Bianco, Antonio, complice la stanchezza generale, un Optalidon e forse la quota, non è particolarmente in forma. Io sono in aspettativa. Il programma del gorno dopo è di fare la cresta Kufner al Mont Maudit.
Il rifugio incustodito, più o meno 12 posti letto, è pieno come un uovo, ci saranno almeno una trentina di alpinisti stipati in ogni buco possibile. Noi siamo sdraiati sotto la finestra accanto alla porta di ingresso e l’aria non è proprio quella che ti aspetteresti a 3.640 metri. I francesi poi in quelle circostanze sono micidiali: fianco a me, anzi praticamente sopra, un gentile signore usa il piccolo davanzale della finestra come assetta e taglia un melone. Un melone!! Ma cazzo vi rendete conto! è da 20 anni che hanno inventato le barrette e questo imbecille si porta appresso un melone che, oltre a gocciolare sui miei pantaloni, produce scarti puzzolenti e umidi che pensate ritornino a casa con il proprietario? Illusi, dentro il bidone dei rifiuti già stracolmo, tanto alle 7 passerà passa l’addetto al ritiro, no?

Alle 3 di notte l’aspettativa si scioglie. Antonio non ce la fa proprio. Decidiamo di ritrovarci al rifugio Torino, gli lascio le corde e tutta l’attrezzatura tranne l’imbragatura, due cordini, piccozza e ramponi.
Lui con calma riprenderà la via del ritorno ed io, questa volta, la prima e unica volta nella mia carriera alpinistica, anticipo tutto il rifugio e mi trovo da solo davanti alla cresta Kuffner al Mont Maudit. Nessun umano intorno e condizioni del terreno perfette. Situazione ideale.

Forse non mi rendo conto esattamente di cosa sto per fare quando inizio a correre sulla cresta, forse il mio subconscio desiderava si realizzasse quella condizione e mi aveva già predisposto psicologicamente. Nella notte aveva già lavorato predisponendo tutte le connessioni ed ora tutto andava secondo i piani.
Poi un folletto con un inchino mi apre la porta di ingresso al Mondo della Lucida Follia.
Si ripresenta l’altro che ti osserva da sopra dove ha tutto sotto controllo e tu esegui i suoi ordini come in una trance.

Sei perfettamente collegato al mondo reale, la roccia, il ghiaccio sono reali, le punte dei ramponi sono reali, il respiro è reale ed i tempi che realizzo mi lasciano stupefatto. 2 ore e 45 per arrivare ai 4.400 metri della vetta del Mont Maudit, 40 minuti dalla vetta al ghiacciaio della Vallè Blanche ai piedi del Mont Blanc du Tacul e da lì correndo sul ghiacciaio in 1 ora al rifugio Torino.
Circa a metà della cresta c’è un pinnacolo di roccia da aggirare sulla sinistra, la Pointe de L’Androsace. Arrivo sotto la punta, seguo il pendio di neve che termina sulla roccia; bisogna arrampicare, guardo verso il basso e la vertigine del pendio sottostante che finisce sul ghiacciaio mi chiude lo stomaco. Provo ma non ci riesco. Devo decidere il da farsi, i minuti passano e rischio di pregiudicare la prestazione.
Guardo il pinnacolo sopra di mè, un bel respiro e parto. La concentrazione che si raggiunge è perfetta ma siamo pur sempre nel Mondo della Lucida Follia.
Seguo un sottile strato di ghiaccio appiccicato alla roccia, faccio del dry tooling senza sapere che lo stavo facendo, metto e tolgo i ramponi, faccio cose strane ma dopo una quindicina di metri riesco ad aggirare lo spigolo del pilastro e, avendo ancora un briciolo di rispetto per me stesso non scrivo di cosa feci per scendere e ritornare sulla cresta di neve.
Tutta questa operazione mi fece perdere un buon quarto d’ora, ritardo che recuperai completamente in discesa sulla via normale del Mont Blanc du Tacul con un parziale da record.

Succede che, quando sbuco di corsa in cima al pendio della via normale al Mont Blanc du Tacul, la scena che mi si presenta è esattamente come quella rappresentata dallo scrittore e vignettista francese Samivel in una delle sue cartoline: ci sono due colonne interminabili di cordate che si susseguono dall’inizio del pendio fin sotto la cima del Tacul occupando le due rigole principali. Quella di destra per la marcia normale, quella di sinistra per il sorpasso. In pratica qualche centinaio di persone occupavano i 600 metri di dislivello del versante nord del Mont Blanc du Tacul rendendo completamente inagibili le tracce per la discesa causa affollamento.

Sono indeciso sul da farsi ma ecco che trovo la soluzione: ad una decina di metri a destra delle due colonne in salita il pendio di neve è duro e anche bello liscio. Il neurone geniale sta lavorando bene: estraggo dallo zaino i pantavento K-Way, chiudo le zip e li indosso sopra l’imbrago come un pannolino gigante, annodandoli e chiudendoli ben stretti in vita con un cordino.
Cappello, occhiali, guanti, picca in mano, culo a terra e via che parto sul pendio tra gli sguardi increduli degli alpinisti incolonnati in coda. Quando superavo i 30 km orari mi mettevo sul fianco e con la becca della piccozza nella neve dura rallentavo un po' e poi via di nuovo alla velocità della luce.

Urlavo e ridevo di felicità e chi mi conosce sa che non è un mio comportamento abituale.

In due, tre minuti arrivo alla crepaccia terminale, evito di finirci dentro ed un’ora dopo, correndo fin sotto il Pic Adolphe, arrivo al rifugio Torino insieme ad Antonio.
L’effetto dell’optalidon era terminato per entrambi, si riprendevano le normali funzioni vitali e restavano piacevoli sensazioni.

 

Chapter 6.5

Vacanze sulla neve

Il mitico Corso di Roccia primaverile del 1977 produsse una discreta quantità di buoni allievi, tra i quali Maurizio D., anche lui, come il sottoscritto, cooptato in tempi rapidissimi per diventare istruttore. Nei primissimi anni di attività, tra il ’78 e l’81, ci legammo in cordata diverse volte e riuscii anche a coinvolgerlo in un paio dei miei sgangherati esperimenti di alpinismo invernale.
Dopo aver preso parte a queste iniziative, Maurizio capì con chi aveva a che fare e quali erano i rischi a cui sarebbe andato incontro se avesse continuato per cui nell’82 abbandonò completamente il mondo della montagna. Diventò un assiduo frequentatore dei villaggi del Club Mediterranee, all’epoca decisamente in voga soprattutto perché lì esisteva la reale possibilità di trovare quello che in montagna non esisteva, non parliamo poi della  ontagna inverno!

La prima volta che ci cimentammo con la montagna d’inverno fummo accompagnati per mano, si può proprio dire così, dal mio da pochissimo ex professore di Educazione Fisica del liceo, Italo, anche lui casualmente istruttore di alpinismo nella Scuola Parravicini.
Italo fu per me la salvezza negli ultimi tre anni al liceo scientifico L.Cremona. Giocavo a basket niente male e lui era un allenatore di basket, arrampicavo e lui era uno scalatore, mi prese in simpatia e non so cosa andasse a raccontare negli scrutini di classe per difendere la mia posizione, onestamente spesso molto critica, ma un qualche risultato doveva ottenerlo perché per lo meno contenevo i danni.

La prima.
Con Maurizio, Italo e sua moglie Donatella, una domenica di febbraio del ‘79, alle 8.30 usciamo dalla stazione di arrivo dell’ovovia che da Barzio porta ai piani di Bobbio e ci incamminiamo verso la cresta Ongania, 250 metri di dislivello totali, II° con placca di III°+, sullo Zuccone dei Campelli, la gigantesca muraglia patagonica che incombe sulle tre piste di sci di Bobbio lunghe non più di 200 metri. Portiamo a termine la salita navigando costantemente con la neve fino alla cintola ed alle ore 20.00, quasi 12 ore esatte dopo, ci presentiamo davanti alle porte della Stazione dell’ovovia. Ovviamente chiuse. Torniamo a Barzio a piedi dove arriviamo alle 22.00.

La seconda
Inizio marzo dell’81. Oltre a Maurizio c’è la mia fidanzata Ester assolutamente ignara di ciò a cui andava incontro. Questa volta, per via della grande esperienza già maturata, l‘obbiettivo è decisamente più ambizioso, sia in termini di quota che di ambiente.
Per il fatto che ero nel periodo in cui pensavo di diventare un vero alpinista, compero gli sci da scialpinismo con relativi attacchi e scarponi. Non per fare scialpinismo ma per gli avvicinamenti invernali. Era una attrezzatura che non poteva mancare nell’armadio di un alpinista.
Recupero l’attrezzatura da sci alpino anche per la mia fidanzata e a mezzogiorno partiamo da Milano alla volta di Courmayeur per una fantastica tre giorni invernali sul Monte Bianco.

Fate attenzione agli orari per capire la preparazione accurata che era stata fatta.
Partiamo da Milano verso mezzogiorno, prendiamo l’ultima funivia per il rifugio Torino e verso le 16.30 siamo sul ghiacciaio dove ci leghiamo e con sci e pelli ci incamminiamo verso i 3.685 metri del rifugio/bivacco Ghiglione, che allora era ancora parzialmente agibile.
Passando sotto il versante nord della Tour Ronde verso le 18 arriviamo alla crepaccia terminale alla base del pendio di ghiaccio che porta al Col du Trident. Lasciamo lì gli sci, pelli e racchette e affrontiamo i terribili 50° di pendenza. Ci vuole un po' di tempo a prepararci, Ester non ha mai messo ramponi e usato una piccozza. Cordata a V, vado avanti e al termine delle due corde seguiranno appaiati Maurizio e Ester.
Lo sbalzo considerevole di quota e la velocità nel farlo, dai 140 meri di dislivello sul mare (Milano) di mezzogiorno ai 3.600 metri delle 18.00, cominciano a fare effetto.

Un’ora dopo sono piantato in una buca di neve al Col du Trident, sdraiato sulla schiena, con gli occhi rivolti ad uno spettacolare cielo che si sta riempiendo di stelle, e tiro disperatamente le corde alle cui estremità ci sono i miei due compagni che stanno procedendo alla stessa velocità che normalmente hanno gli alpinisti esausti all’Hillary Step, ad 8.700 metri poco sotto la cima dell’Everest. Praticamente fermi.
La temperatura è ben sotto lo zero e si alza una brezza che crea un bellissimo turbinio di cristalli di neve che ricopre tutto. Se siete sdraiati sulla neve praticamente vi trovate immersi in una bufera.
Ad un certo punto, sono quasi le 21.00, con un leggero scricchiolio del ghiaccio, un’ombra scura si palesa sopra di me. Mi sollevo velocemente sbigottito e spaventato. Non è una visione ma un uomo in carne ed ossa. Viene dal rifugio che resta a circa 30 metri di distanza ed aveva probabilmente sentito le urla disperate di incoraggiamento a salire, urla che meccanicamente ogni tre minuti rivolgevo ai miei compagni. Dopo ogni urlo la corda saliva di 30 centimetri.
In uno stentato e congelato inglese ci salutiamo, mi chiede se va tutto bene, gli rispondo certo che sì e lo ringrazio per la sua offerta di portami lo zaino fin dentro il rifugio, offerta che gentilmente rifiuto. Figurati, no problem, thank you very much.
Forse non ci capiamo alla perfezione tant’è che prende gli spallacci del mio zaino per metterselo in spalla, lo solleva e immediatamente, dicendo qualcosa in polacco che presumo avesse il significato di “ma tu sei proprio fuori”, nella versione gentile, lo molla di colpo sulla neve e salutandomi se ne torna al rifugio. Cavoli ragazzi, era solo un po' voluminoso, ci avevo messo dentro anche quasi tutto lo zaino di Ester ed il cibo per 3/4 giorni, tra cui non vorrete farvi mancare una dozzina di belle arance grosse e succose? Praticamente mi ero autoassicurato allo zaino. Inamovibile.

Quando verso le 22.00 siamo tutti e tre davanti alla porta del rifugio, sul ballatoio già allora pericolosamente inclinato sul vuoto, è come se fossimo sul set di un film di Romero, Zombie la notte dei morti viventi in alta quota. Quando entriamo e guardiamo i 20 centimetri di neve che coprono brande e parte del pavimento il morale si disintegra. Di mangiare non se parla, il mal di testa è già in uno stadio molto avanzato, puliamo lo strato di neve dai materassi e ci infiliamo nei sacchi a pelo. Vestiti e in silenzio. Tutto è rimandato all’indomani.

Questo è il ricco programma che avevo preparato:
- primo giorno, Milano - Rifugio Ghiglione ;
- secondo giorno, discesa del pendio di ghiaccio sotto il rifugio, recupero degli sci, breve e veloce discesa fin alla base del canalone Gervasutti sulla ovest della Tour Ronde, salita in vetta durante la quale il sottoscritto si sarebbe portato gli sci in spalla per poi scendere lo stesso canalone. Sci ripido che potrebbe definirsi quasi quasi estremo (400 metri a 40/45° di pendenza) e ritorno in serata nel caldo ed accogliente bivacco rifugio con secondo pernottamento gratis;
- terzo giorno, riposo per quasi tutto il gruppo tranne che per il sottoscritto che, con i suoi sci nuovi di pacca, Fisher Tour Extrem, leggerissimi, con anima in legno e con la super novità delle lamine seghettate (per capirci, una vaccata totale, alla prima affilatura diventavano normali lamine di sci) avrebbe provato a scendere i 100 metri del pendio sotto il rifugio che sì, questi erano veramente ripidi. Infatti avevo pensato a farmi assicurare da Maurizio nell’ultimo tratto;
- quarto ed ultimo giorno, fantastica e rilassante discesa lungo tutta la Mer de Glaces fino a Chamonix con ritorno in autobus a Courmayeur.

Questo è lo svolgersi degli avvenimenti dopo che ci infilammo nei sacchi a pelo. Ora potete ridere.
Verso mezzanotte, i due polacchi, con un abbigliamento tecnico da paura, vestiti come loro noi non saremmo neanche scesi in giardino per giocare a palle di neve, con zaini delle dimensioni di un frigorifero ma identici a quelli che aveva usato mio papà 30 anni prima e che ora stavano ben riposti in solaio e avrebbero fatto la loro bella figura solo se esposti in un museo, ci salutano ed escono dal rifugio diretti alla Parete Nord del Pilier d’Angle.
Non ricordo a quale via fossero diretti, forse la Cecchinel/Nominè, ma poco importa, quella sì da paura nelle condizioni in cui si muovevano. Per chi ha idea del terreno, dovevano scendere sul pendio sottostante il rifugio per 300 metri circa, raggiungere e attraversare il plateau sotto la parete della Brenva con la neve fino alle ascelle e non avevano gli sci!!!e una volta salita la parete nord del Pilier d’Angle, giusto quei mille metri di ghiaccio e misto da non farsi mancare d’inverno, per scendere, avrebbero dovuto prima salire fino in vetta al Monte Bianco. Gli avremmo dovuto vendere i nostri sci o per pietà avremmo dovuto fermarli.
Qualche anno dopo mi capitò di uscire a cena a Milano con un tale Jerzy Kukuzca, un alpinista polacco che stava completando la salita di tutti i quattordici 8.000 (secondo a riuscirci dopo Messner) e compresi appieno di che materiale fossero fatti gli alpinisti dell’Est. Erano prodotti in fonderia e forgiati con il maglio.

Torniamo a noi: alle otto della mattina con una temperatura nel locale rifugio sotto zero, ci alziamo e la sensazione è quella di avere una garrota in testa che ti stringe inesorabilmente la fronte facendoti scoppiare le tempie. Per cortesia non facciamo paragoni con i polacchi! Dobbiamo scendere, nessuno è in grado di compiere una operazione che non sia alla lentezza di un bradipo.
Siamo già vestiti, dobbiamo solo mettere i ramponi ed uscire. Sono seduto di fronte ad Ester che ancora non ha ben chiaro di dove si trovi e cosa stia facendo in un luogo simile. Come un automa ha già infilato i ramponi sugli scarponi da sci ma non riesce ad allacciare le cinghie. Molto gentilmente le dico di alzare lo scarpone che ci avrei pensato io. Lei solleva lo scarpone e con un colpo preciso dal basso verso l’alto mi infila le punte anteriori del rampone nella rotula sinistra. Colpo secco fino all’osso. Dolore neanche tanto visto che eravamo in pratica anestetizzati dal freddo e dal mal di testa. Pantavento in gore-tex, salopette invernale Trabaldo più sottotuta in pile Grand Nord Francital con due belli squarci sul davanti. Non ho neanche la voglia di andare a vedere la situazione del mio ginocchio. Lo stringo con le mani e mi accascio su di esso.

Appena fuori dal rifugio, al Col du Trident, in una mattina spettacolare, prima di iniziare a scendere fissiamo nella memoria quegli spettacoli grandiosi che lasciano letteralmente senza fiato. Muovendo gli occhi da sinistra verso destra, prima la cresta di Peuterey, la nord della Aig. Blanche, il Pilier d’Angle, tutto il versante della Brenva dalla Poire allo Sperone, La Cresta Kufner al Maudit, poi avanti ed ecco il Mont Blanc du Tacul con l’Arete du Diable e il Grand Capucin e poi tutta la vista d’infilata verso la Mer de Glace con i Dru a chiudere.
Qualche minuto per godersi lo spettacolo e poi ci caliamo fino a recuperare gli sci. Iniziamo a sciare e quando passiamo sotto la Tour Ronde, persi poco più di 400 metri di dislivello, come d’incanto il mal di testa scompare. Ad una curva del ghiacciaio dove è già arrivato il sole ci fermiamo a mangiare qualcosa e alleggeriamo gli zaini dalla frutta fresca. Arance, mele e banane che fanno almeno 5 chili se ne vanno ecologicamente in un crepaccio.
Il ricordo bello fu che la tanta neve ci permise di arrivare sciando fino a Chamonix. Il bus poi ci riportò a Courmayeur e alla sera arrivammo a casa a Milano. L’esperimento non era andato proprio come programmato ma ero contento lo stesso, avevo portato la fidanzata in un posto da urlo e Maurizio, poi, mi ringraziò tantissimo ed iniziò l’avventura nei villaggi Club Med.

 

Chapter 6.6

Anni ‘80

Tranne qualche raro azzeccatissimo esperimento di alpinismo invernale mi dedicai, ovviamente, ad un’altra di quelle attività necessarie al completamento dell’esperienza dell’alpinista: la scalata delle cascate di ghiaccio.
Come viene recitato in ogni lezione di storia dell’alpinismo, l’evoluzione nelle difficoltà superate avviene anche per merito dell’evoluzione tecnica dei materiali. Iniziarono così ad arrivare sul mercato le prime piccozze tecniche da piolet traction, oggi si direbbe ghiaccio verticale.
Se ne trovavano con le becche di ogni genere e tipo, super curve, a banana, dritte normali, tubolari, ma i manici restavano diritti e corti. I modelli Chacal e Barracuda della Simond erano tra i più gettonati, come le piccozze con le lame tubolari che allora parevano fantascientifiche e super innovative. In ogni caso avevano tutte un modo d’utilizzo lontano anni luce da quello che oggi consentono di fare i moderni mostri, che con un elegante e leggero movimento del polso si conficcano in qualunque tipo di ghiaccio come un bisturi.
Quelle, i Barracuda e le Chacal, si dovevano usare alla stregua di una clava e spaccavano. Non nel senso che erano fighe, ma che spaccavano il ghiaccio tramutando la scalata di una cascata ogni volta in una battaglia dove al compagno in sosta ed alle cordate che seguivano sarebbe stato utile lo scudo di Capitan America per deviare i blocchi di ghiaccio che si staccavano ad ogni colpo di picca.

Dopo essere riuscito in più di una occasione ad acciaccare qualche sventurato compagno, prima di rischiare una imputazione per omicidio volontario, decisi di sospendere quel tipo di attività.
Il freddo mondo del ghiaccio e neve invernale da lì in avanti lo affrontai solo con gli sci ai piedi, ovviamente da discesa, solo discesa e in pista.

Velocità e quando la neve era tanta e soffice ci si immergeva nella polvere ma, non dimentichiamo, che il decennio degli anni ’80, i rampanti ’80, oltre che per le cascate e goulotte di ghiaccio fu anche l’epoca d’oro dello sci estremo. Patrick Vallencant e Tone Valeruz sciavano tutte le pareti dove era possibile scendere, Gian Carlo Grassi, Jean Marc Boivin e Patrick Gabarrou percorrevano ogni rigola d’acqua che si ghiacciava.
Le immagini erano forti, emozionanti e lasciavano in uno stato di inebetita ammirazione. E’ sempre stato così. Che fosse allora Boivin che scia quello sputacchio di neve sulla Nord del Dru e poi si lancia con il deltaplano o Hannold oggi in free solo, ti cade la mascella e resti lì a guardare inebetito. Appunto.

Le occasioni erano in giro, piccoli buchi neri che rimbalzavano nell’aria e che, come le sirene di Ulisse, attraevano inesorabilmente chi si soffermava troppo ad ammirarle. In un mondo piccolo era difficile non incapparvi e, nonostante cercassi faticosamente di fare attenzione per mantenere sotto controllo il livello di assuefazione all’alpinismo, ero sempre un soggetto a rischio di ricaduta. Bastava un po' di “fortuna” e la frittata era servita.

Dicevo che andavo a sciare. Possedevo un paio di Maxel racing da gigante, 195 cm., bei pesanti, quello passava il convento e doveva andarmi bene. Anche sciare non era una cosa che potevo permettermi con frequenza settimanale ma avevo una discreta tecnica e soprattutto nella teoria ero fortissimo. Qualche pomeriggio nel laboratorio con Roberto ed in pratica vi potevate presentare alle selezioni per diventare maestro di sci, anzi Istruttore dei maestri.
Siccome, come direbbe Jovanotti, “sono un ragazzo fortunato” l’occasione per una discesa di sci quasi estremo la colsi al volo, quella per la goulotte ghiacciata invece, non vedendola passare, da autodidatta me la confezionai su misura.
L’esperimento goulotte di ghiaccio è quello che non metterò mai per iscritto, per amor proprio, ricordate? Se dovessi classificarlo lo metterei tra i “tentativi di suicidio complessi e dall’esito incerto”.
Per porre in atto simili iniziative si doveva essere dei seguaci di quella religione o filosofia minimalista che è sempre stata presente nel movimento alpinarrampicatorio dalle sue origini.
Lungi da me essere un seguace di una simile filosofia, poteva però succedere che in un momento di infelicità o di rilascio eccessivo di adrenalina ti incuriosivi alla cosa.
Il fine ultimo era l’elevazione dell’uomo alpinista sopra le nebbie della mediocrità e l’arrampicata in solitaria era la via da seguire, applicando, secondo il grado di elevazione che si voleva raggiungere, con maggior o minor severità i suoi dogmi. Una volta scelta la meta ti faceva mettere sul tavolo il materiale necessario e poi ti obbligava a eliminarne almeno la metà, e poi a togliere ancora qualcosa: quel chiodo e quel cordino non vorrai mica portarlo, così se ti trovi in difficoltà magari poi ti viene voglia di utilizzarlo. Dai! Non si fà. Per ritornare ben temprato nello spirito dovevi eliminare ogni possibile “distrazione”.

Lo sci ripido invece fu l’occasione per sperimentare un’altra filosofia d’azione, anche questa utile a temprare lo spirito; la potremmo definire del tipo "one shot, one spot", un colpo un centro, ti va bene una volta e non ci riprovi più.

Sul finire degli anni ’80, tramite l’amico Giorgio, avevo conosciuto un ragazzo appassionato scialpinista e cacciatore scialpinista. Già queste due caratteristiche avrebbero dovuto allertarmi. Celso, ottimo sciatore, frequentava e conosceva benissimo le sue montagne della bergamasca ed anche quello che, sciisticamente parlando, succedeva su quelle montagne.

“Andiamo a fare la discesa della parete est del Pizzo Arera" mi dice un giorno, "non l’hanno ancora fatta con gli sci, sono 500 metri di dislivello con stretti pendii di neve tra rocce con massimo 50° di pendenza”. Andiamo a farla, è la sua proposta, tra due settimane. Cavoli, solo due settimane per prepararmi, ma ce la posso fare.
E via con sedute giornaliere di squat e salti per rinforzare la muscolatura delle gambe e subito, la domenica dopo, metto scarponi da sci e sci sullo zaino e vado in cima alla Grignetta per fare una prova pratica.
Dal colletto poco sotto la vetta inizio a sciare scendendo lungo la cresta Cermenati per imboccare, poco dopo, il canalone Caimi. E’ bello stretto, provo due curve saltate, poi arretro un attimo per evitare la rigola fatta da chi sale, le code si piantano nel bordo della rigola, mi sbilancio un attimo, vado in torsione e si sganciano entrambi gli attacchi.

Ovvio, sono attacchi di sicurezza, che pretendevo? Gli sci restano piantati nella rigola ed io scivolo nel canalone per una ventina di metri. Mi fermo e penso, no! Cazzarola, gli attacchi non devono mai aprirsi. Piuttosto precipiti lungo la parete ma lo fai con gli sci ai piedi! L’unico aspetto positivo veramente importante quando ti capitano cose del genere è che nelle vicinanze non ci sia nessun testimone oculare, l’immagine è importante. Recupero gli sci e concludo la prova.

Non avendo 3/400.000 lire per comperarmi gli attacchi racing che arrivano fino a 300 kg di sforzo, che per i 60 kg di peso del sottoscritto era come cementarsi gli scarponi agli sci, torno in laboratorio da Roberto dove oltre ad affilare le lamine che ci potevo tagliare il salame, metto sul massimo dei chilogrammi possibile gli attacchi girando la vite di regolazione fin quasi a spaccarla e poi cerco, senza riuscirci, di escogitare qualche sistema artigianale per evitare che l’attacco possa sganciarsi. Morale? Non devo cadere.
Un ripassino teorico sulla curva saltata e sono pronto.

Con Giorgio e Celso risaliamo lungo gli impianti della locale stazione sciistica e ci portiamo alla base della parete. La neve è dura ma non ghiacciata, calziamo i ramponi e saliamo cercando di trovare un percorso da seguire poi in discesa. Sulla cresta poco prima della vetta ci creiamo una piazzola per mettere gli sci.
Sono un poco agitato ed inizio con la respirazione diaframmatica per calmarmi.

Mi giro e Celso è già andato. Ha già sciato i primi 50 metri di pendio introduttivi e con noncurante eleganza scompare alla vista. Ma porca miseria, manco un "ciao", vado. Vabbè, non siamo proprio amici, ci conosciamo da pochissimo ma un salutino di incoraggiamento mi avrebbe fatto piacere. Resto da solo. Giorgio scenderà a piedi lungo la cresta, non ha portato gli sci perché è meglio così.
Ripasso a mente come si fa una curva all’epoca degli sci no carving: piegamento, distensione, spalle a valle peso centrale. Ok ci siamo e vado. Inizio a scendere, le lamine sono perfette, a poco a poco prendo velocità, è il momento di curvare: diagonale e posizione corretta, piegamento distensione e gli sci vanno diritti, manco una piega, riprovo, uno due tre piegamento distensione e via diritto ancora.
Anche gli sci risentono della tensione e restano ben incollati alla neve. La diagonale si allunga in modo preoccupante. Inizio ad avvicinarmi alle rocce che delimitano il pendio iniziale avendo fino a quel momento tracciato una perfetta linea diritta.

Guardo a valle, ho ancora 50 metri circa di pendio prima che si inabissi nella parete sottostante. Ce la devo fare, gran respirone e vai! Ho curvato. A quel punto proseguo con una serie di curve perfettamente controllate avvicinandomi sempre più al bordo della parete. E’una sensazione simile a quella che si prova quando arrivi sparato ad un cambio di pendenza, solo che in quel caso sai esattamente che, anche se non la vedi, sotto c’è la pista. Comunque il dado è tratto e proseguo concentrato. I tratti più ripidi sono pendii poco più larghi degli sci. Curva saltata. Poi un paio di metri stretti, in equlibrio con punte e code sulle rocce e gli sci che non toccano la neve e alla fine sono alla base, dove Celso è già arrivato da mezzora. Sul Gazzettino della Bergamasca il mese dopo uscì un trafiletto che riportava la prima discesa con gli sci della Est del Pizzo Arera. Grande! Conservo ancora una copia di quel giornale.

Poco tempo dopo, da solo, con sci e pelli, Celso restò sotto una valanga nelle sue valli bergamasche e morì. Se vai d’inverno da solo con gli sci puoi essere il più grande conoscitore del luogo ma il rischio di venire travolto da una valanga non puoi pensare di eliminarlo. L’abitudine, la consuetudine a muoverti su un determinato terreno e la naturalezza che acquisisci facilitano sicuramente ma, purtroppo, fanno inevitabilmente abbassare la percezione del rischio.
Con Giorgio tornammo in quella valle bergamasca, questa volta per il funerale. Non ero mai andato al funerale di qualcuno morto in montagna, fu la prima. Fortunatamente per i miei amici anche l’ultima, non mi è più capitato ma è stato in quella occasione che iniziai a provare fastidio per la narrazione che segue una tragedia in montagna.
Nelle persone che hanno una forte e irresistibile passione per l’alpinismo risalta evidente un comportamento estremamente egoistico. Per il tempo che serve per praticarlo, anche, ma soprattutto per il fatto che l’alpinismo è una attività pericolosa. Soggettivamente e oggettivamente pericolosa, dove il rischio di farsi male fino all’estremo di lasciarci la pelle è sempre presente. Anche ridotto ai minimi termini, lo possiamo pensare, ma presente.
Quindi, se per inseguire la passione della vita e godere delle emozioni che procura non considero che posso cancellarmi con un click dall’esistenza delle persone con cui vivo, genitori, mogli, figli, fratelli, amici, per i quali magari la mia presenza potrebbe essere di qualche interesse e utilità, sono un pirla egoista, se lo faccio consapevolmente sono un gran pirla egoista.
Possiamo farlo? certo che possiamo, e lo faremo ancora perché il richiamo dell’alpe può essere irresistibile ma dovremmo solo avere il buon senso di lasciare due righe alla memoria: Cari tutti, se dovesse succedermi qualcosa in montagna andate a bervi una birra e se volete fate una festa ma per cortesia, non sprecate parole inutili, sono stato solo un gran pirlone. Chiedo scusa.
Ci vorrebbe solo un gran bel silenzio.

 

Chapter 6.7

L’Età Fantastica


L’importante e’ capire di essere stato sempre molto fortunato e quindi agire di conseguenza.
Noi umani siamo sempre fattori di una qualche equazione di calcolo probabilistico e in condizioni normali il nostro agire è riconducibile sempre entro qualche statistica, in condizioni normali, ma il comportamento degli scalatori può essere considerato “non normale” e questo rappresenta una variabile che fà impazzire i calcoli.
Quando percepivo di essere con i piedi vicino alla mia sottile linea scura mi sono sempre detto: “ok, ora stop, rallenta e resettati. Fai cose, incontra gente, suona il piano. Pensa ad altro”.
Poi tornava la mia attività esplorativa che seguiva piani quinquennali di grande soddisfazione e l’arrampicata sportiva, che c’è sempre stata sin dall’inizio, e riuscivo a mantenermi in buon equilibrio.

A cavallo degli anni ‘80/’90, dei quattro dell’apocalisse ero l’unico rimasto in contatto con Robi per via dello sci, disciplina che lo aveva assorbito integralmente e così fui iniziato alle delizie dell’affilatura professionale delle lamine e sciolinatura delle solette. Iniziai a frequentare la sua cantina-laboratorio dove al banco di lavoro gli sci venivano preparati settimanalmente con rigorosa cura.
A fianco del banco di lavoro c’era la sua batteria elettronica, due D-Drum accoppiate più pad elettronici e noise gate di ogni genere e tipo che manco Phil Collins aveva, con annessa una attrezzatura professionale da sala di registrazione così, cogliendo l’opportunità, acquistai due tastiere tra cui la mitica Korg M1 e creammo un duo elettronico. Provavamo a scrivere brani musicali o suonavamo semplicemente improvvisando per ore. Non arrivammo al successo come i Tangerine Dream ma il connubio artistico funzionava alla grande, suonavamo insieme poi lui continuava a sciare ed io ad arrampicare ma lentamente e con costanza giravo il coltello nella ferita e lo stuzzicavo.

Dopo quasi 15 anni che arrampicavo avevo deciso che dovevo imparare ad arrampicare! Cercai quindi di rivedere gli schemi motori che mi portavo dietro e con un lavoro lungo arrivai a buoni risultati, almeno penso e così, per condividerli e lavorare meglio, un giorno del ’94 presi Robi e gli dissi: adesso tu metti via questi cazzo di sci e riprendi a scalare. Punto, non si discute. In Parravicini c’è un bel gruppo che segue l’arrampicata sportiva, bei corsi e ci si diverte un casino. Non che smise di sciare, per carità, ma almeno da aprile a novembre non usò più gli sci; cioè forse non avete capito, sciava tutto l’anno!
Nel Laboratorio continuavamo a suonare ma in breve tempo nacque un totem, arrivarono attrezzi per allenarsi, poi un pannello d’arrampicata, poi fu insonorizzata e dopo qualche anno l’embrione del Fantasyclimbing prese forma.

 

Chapter 6.8

L’Origine e La Fine

Avrei Dovuto Saperlo Già
Molto Tempo Fa’

Perché i segnali c’erano stati ma non me ne ero assolutamente accorto.
Non erano segnali nascosti nel subconscio, erano belli evidenti e rumorosi, non c’era da pensare troppo, interpretare, bastava fare 2+2 della realtà e la conclusione sarebbe stata evidente e come spesso succede, tutto si riconduce all’origine, all’età della adolescenza e al nuovo inizio che avvenne con il Corso Roccia Primaverile della Parravicini.

I segnali furono due. Il primo molto semplice, lineare e rapido nel suo svolgersi, il secondo più lungo e complesso. All’epoca del primo avevo 13 anni, nel secondo 17 e stavo partecipando al Corso Roccia. Nel primo caso, per via dell’età è comprensibile che non ci fu una analisi dell’accaduto, nel secondo… nemmeno.

Primo segnale:
siamo io e mio fratello, di nascosto abbiamo preso un cordino di nylon ritorto da 8 millimetri di diametro, due chiodi da roccia, due moschettoni di ferro degli anni ‘50 e il martello dallo zaino di papà e con altri due amici saliamo dal paese di Cogne ai prati di Sylvenoire dove nei boschi ci sono un po' di massi.
In segreto dai genitori e nonni che ci accompagnavano nelle lunghe vacanze andiamo a fare la corda doppia. Siamo eccitatissimi. Troviamo un sasso alto non più di tre metri con una fessura in cima. Piantiamo un chiodo, agganciamo il moschettone e il cordino di nylon ritorto e Francesco, un compagno di scorribande, si appresta per primo a scendere. Si passa la corda doppia in mezzo alle gambe, la incrocia sul petto e poi sulla spalla. L’avevamo già visto fare.
E’in piedi in cima al sasso con gli scarponcini praticamente sul chiodo. Inizia ad arretrare, lo vediamo inclinarsi all’indietro e precipitare.
Sul sasso resta solo il chiodo. Forse ci aveva messo involontariamente un piede sopra tant’è che il moschettone si era aperto e la corda si era sfilata, vallo a sapere, comunque guardiamo dall’alto e lo vediamo disteso nel prato con la schiena tra due sassi. E’un miracolo che abbia schienato senza beccare i sassi. Fa fatica a respirare, ha una botta grande come la schiena che diventerà tutta nera, lo prendiamo in braccio e lo riportiamo in paese. Arriviamo sul pianerottolo di casa sua, lo appoggiamo al muro, suoniamo il campanello e ce la diamo a gambe levate per evitare l’incontro con i suoi genitori.

Secondo segnale:
pratica abituale al Corso Roccia primaverile era di formare delle coppie tra gli allievi che se possibile restavano fisse per l’intero corso mentre ad ogni uscita avveniva una rotazione con gli istruttori.
All’epoca, le probabilità che si capitasse con unA compagnA erano uguali alle probabilità di vincere al superenalotto, che allora non c’era ma dà l’idea. Era (è) un mondo di genere maschile quello della montagna. Non c’era una istruttrice e in quell’anno zero ragazze. Brutto brutto.
Quindi mi ritrovo con un compagno. Giacomo è un ragazzo della mia età con il quale ci fu da subito una empatia totale. Non so se per l’aria elettrizzante del momento o per chissà quale strana alchimia, quando eravamo insieme bastava un niente e scoppiavamo a ridere. Una occhiata, una battuta, un commento di qualche istruttore e giù a ridere come dei deficienti!
La cosa incredibile era che questa ridarola scoppiava ovunque, sul tiro, in sosta, al rifugio, sul sentiero, era incontenibile.
L’ultima uscita del corso di Roccia andammo al Pilone Centrale (quello in Grignetta che sbuca sulla cresta Segantini), il nostro istruttore è un certo Alberto soprannominato Zuma. Mantello da passatore, cappello a tesa larga, voce da tenore, battute fulminanti e dialettica da educanda; in Parravicini c’erano veramente tipi strani.
Ultima lunghezza di corda. C’è un po' di nebbia. Zuma partì dalla sosta assicurato dai suoi due allievi (io e Giacomo). Traverso verso destra, poi diritto e nuovamente in traversata a sinistra sino ad una sorta di sperone che porta verso la fine.

Col casino delle molte altre cordate nelle vicinanze e i comandi urlati da sopra e sotto, ad un “mollate tutto e venite”, molto serenamente io e Giacomo smontammo tutta la sosta e lì, con le corde in mano, ci muovemmo dalla sosta per anticipare il recupero e dimostrare che eravamo allievi rapidi ed efficienti.

Poi, del tutto inaspettatamente, Zuma ricomparve in arrampicata, sul traverso una decina di metri sopra di noi e guardando giù vide i suoi allievi che avevano smontato la sosta e con le corde in mano si stavano già muovendo.
Vi dico solo che Zuma non era per nulla timorato di Dio e l’eco delle imprecazioni e minacce verso i suoi allievi fu udito fin sul piazzale di Pian dei Resinelli e rimbalzò tra le guglie della Grignetta per molto tempo.
Capimmo di aver fatto una idiozia pericolosissima e cercammo di rimediare alla meglio. Tornammo in sosta e nell’agitazione totale che comunque non riuscì a fermare uno scoppio di riso incontenibile, mentre uno raffazzonò un barcaiolo decente per assicurarsi, aiutati dalla nebbia che era ricomparsa, l’altro arrotolò a mò di gomitolo la corda attorno ad un chiodo e con gli occhi che lacrimavano dal ridere gli urlò: vai Zuma! Tutto a posto, sei assicurato! Terrificante!

Quando lo raggiungemmo alla sosta vedemmo la scena: era lì, seduto, rivolto verso di noi e, mentre recuperava la corda di entrambi con una mano, ci mostrava la piccozza nell’altra sfoderando un sorriso che non prometteva buone cose. Alla sera fummo ovviamente simpaticamente cazziati dal direttore del corso ma risultando entrambi tra gli allievi “da tenere d’occhio”, capite cosa intendo, il fatto non ebbe ulteriori conseguenze.
Il Corso Roccia Primaverile della Parravicini ti ribaltava in una atmosfera fantastica. Capivi proprio che era un bel mondo quello dell’alpinismo e della montagna, un mix di sentimento eroico tardo romantico attraversato da uno spirito divertente e scanzonato di un gruppo di simpatici istruttori. Ne uscivi veramente gasato con l’impazienza di metterti subito alla prova, cosa che per mè e Giacomo non si fece attendere molto.

Giacomo fu il mio unico compagno di corso e il compagno di cordata nella prima scalata in montagna per entrambi, il battesimo alpinistico, che facemmo qualche mese dopo il corso. Seguendo i consigli degli istruttori, da bravi allievi andammo in Grignetta a rifare una delle prime scalate del programma del corso.
Iniziammo lo Spigolo Dorn al Primo Torrione Magnaghi alle 15 del pomeriggio, dopo Milano-Lecco in treno, Lecco-Pian dei Resinelli in pulmann, e sosta al Rifugio Porta.
Di quel giorno mi resta una polaroid di Giacomo, alla prima sosta, che nel pieno di un attacco di riso tenta di sciogliere un groviglio indicibile della nostra corda da 40 metri, 12mm o quasi, un anaconda impazzito. Alle 22.30, quando stiamo per entrare finalmente nel bosco a monte del rifugio Porta ci vediamo sbucare di fronte una squadra di Alpini, di base al rifugio per esercitazioni, che era stata convinta dal gestore ad andare a vedere cosa era successo ai due ragazzi che erano saliti ai Magnaghi alle tre del pomeriggio.
Capimmo quel giorno che quella sarebbe stata la nostra prima ed ultima ascensione insieme. Ci salutammo ridendo e non ci incontrammo mai più. So che praticamente smise di arrampicare e si dedicò con soddisfazione alla speleologia.

Mi viene un pensiero: Maurizio al Club Mediterraneè, Giacomo alla speleologia, che abbia avuto qualche influenza nelle loro scelte?

Quindi, avrei dovuto capirlo molto tempo fa che la matrice originaria ha una certa importanza nel determinare gli eventi che si succederanno.
Sappiamo molto bene, di contro, che nella esplosiva fase iniziale della propria carriera arrampicatoria, se poi si ha vent’anni, qualunque segnale che contenga un consiglio alla prudenza ed alla riflessione viene sistematicamente ignorato ma, e qui sta la nostra fortuna, viene automaticamente archiviato in qualche parte recondita del nostro cervello, sezione arrampicata.
In conseguenza di questo back-up automatico, al momento opportuno, il neurone che gestisce la sezione del cervello dedicata all’alpinismo lancia un software di salvataggio che si espande in tutta la rete neurale e fa comparire, all’interno di ogni processo decisionale in atto, l’informazione:
“guarda che il pericolo sei tu”
“guarda che il pericolo sei tu”
Ed è così che ci si avvicina alla cosiddetta “Consapevolezza di rappresentare un pericolo per se stesso e gli altri”, che in termini contrattuali potremmo definire “clausola di sopravvivenza” che, se applicata diligentemente, genera la nostra salvezza.
In questo modo, il risultato del processo decisionale fa sì che il divertimento sia sempre assicurato, la sofferenza giusto l’indispensabile, anche meno, e la “leggerezza dell’arrampicare” una condizione consapevolmente perseguibile e fantastica perché,

ridendo e scherzando,

.....................sotto sotto, in fondo in fondo, alla fine………………

E’sempre e solo Rock’n roll, caro Cameraccio.

Good Vibration, yeah !!

Andre fessura disperazione